venerdì 20 gennaio 2017
Comune e Asl di Ferrara presentano un vademecum per gli operatori della salute in cui l'intento di superare i pregiudizi di genere si trasforma troppo spesso in rivendicazione ideologica.
Medico in corsia

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Ecco uno più frequenti pregiudizi omofobi: “I figli devono avere una mamma e un papà”. Davvero gravissimo. E’ noto che i bambini nascono in provetta dopo averli scelti su un catalogo, oppure da un utero in affitto a caro prezzo. Mamma e papà appartengono all’archeologia procreativa.

Vogliamo sparare un altro pregiudizio? E dei peggiori?: “Una coppia omosessuale che desidera un figlio non ha fatto i conti con i limiti che la sua condizione gli impone”. Quasi imperdonabile. Guai porre limiti al desideri. Anzi, urgente trasformare i desideri in diritti, in leggi quadro che possano azzerare quel piccolo, trascurabile ostacolo rappresentato dai limiti posti dalla natura. Un’altra terribile credenza omofoba? “La cosiddetta “famiglia tradizionale” è lungi dall’essere l’unica possibile, poiché il dispositivo familiare è stato oggetto di mutazione e ridefinizioni continue nel tempo”. Naturalmente, quando si parla di “famiglia tradizionale” meglio usare le virgolette, trattandosi di tipologia sociale in via d’estinzione e comunque non preferenziale rispetto ad altre e più fantasiose combinazioni. Peccato che tutte le variazioni sul tema - famiglie disgregate, ricomposte, allargate, unigenitoriali ecc… – nascano come evoluzione, e spesso come involuzione, di quel modello originale. Lo vogliamo destinare al museo della sociologia familiare? Benissimo, qualcuno ci indicherà modelli più efficaci. Che, al momento però non esistono.

Un’altra perla colta dall’elenco dei pregiudizi omofobi? “Dal confronto tra genitori omo ed eterosessuali non sono emerse differenze per quanto concerne le capacità genitoriali, il concetto di sé e il benessere psicologico”. Ma chi l’ha detto? Forse le tante ricerche di area nordamericana commissionate dalle associazioni gay, condotte su militanti e attiviste delle medesime lobby? E tutte le altre ricerche, forse meno numerose ma altrettanto autorevoli che dicono esattamente il contrario? Insomma, nel migliore dei casi il giudizio va sospeso dal punto di vista delle indagini scientifiche. Sul piano della comune esperienza e nel normale buon senso invece il confronto non si pone neppure.

L’elenco “dei pregiudizi e credenze omofobiche più frequenti che i professionisti dovrebbero evitare quando hanno in cura un minore con genitori omosessuali” si trova in un vademecum rivolto agli operatori della salute (medici e infermieri) che si intitola “Lgbt. Oltre gli stereotipi di genere. Verso nuove relazioni di diagnosi e cura”, e che è stato presentato nei giorni scorsi dal Comune e dall’Asl di Ferrara. L’obiettivo, come spiega l’assessore alle Pari opportunità, Annalisa Felletti, è sicuramente condivisibile: “Non vogliamo suggerire un trattamento speciale per le persone Lgbt, bensì un’assistenza sanitaria sensibile alle differenze individuali, un approccio centrato sulla persona, caratterizzato da un atteggiamento non giudicante ed accogliente nei confronti delle persone e delle differenze che le caratterizzano”.

Benissimo. Quello che non si capisce è perché l’intento di superare i “pregiudizi di genere” debba poi mescolarsi con la promozione di una cultura gender secondo cui parlare di madre e di padre diventa discriminazione omofoba? La maggior parte elle riflessioni e delle indicazioni che si leggono nel volumetto – ha avuto il via libera anche dell’Unar che ha accreditato il corso formativo nell’ambito del quale il documento è stato presentato – sono ispirate al rispetto, alla dignità della persona, al diritto di avere trattamenti sanitari inclusivi dal punto di vista dell’orientamento sessuale. Difficile non essere d’accordo. Quando però dalla legittima difesa dei diritti delle persone omosessuali si passa alla pretesa, anche solo implicita, di mettere all’angolo quella che viene definita “eternormatività” qualcosa non funziona più. Vuol dire che il passo dalla realtà all’ideologia è stato fatto.

Prendersela perché la cultura professionale della sanità in Italia “è caratterizzata da un approccio permeato di eteronormatività”, così si legge nel documento, è un sapore quasi paradossale. E da cosa dovrebbe essere permeato? Di “omonormativita”? Come ha poco senso raccomandare ai medici di rivolgersi alle persone di cui non si conosce l’orientamento sessuale “senza fare riferimenti a mariti e mogli”. E perché mai? Non sono parole sconvenienti. E la condizione della maggior parte delle persone adulte è proprio questa: avere una moglie-donna e un marito-uomo. Se combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, vuol dire rovesciare i piani e confondere realtà con propaganda, non si difende alcun diritto. Si nega solo l’evidenza.

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