venerdì 4 marzo 2011
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Il dibattito mediatico sulla legge relativa al fine vita si sta avvitando intorno a una contraddizione evidentissima, che proprio perché così lapalissiana scivola nell’indifferenza di molti commentatori che si stanno cimentando sul tema: la proposta di legge è avversata sia dai paladini dell’assolutezza dell’autodeterminazione, sia da chi si propone come più strenuo difensore dell’indisponibilità della vita umana. Come mai? La risposta è semplice: i primi sono soprattutto giuristi, i secondi sono soprattutto filosofi. O meglio, molti dei primi operano da decenni nel settore giudiziario (si noti che l’«appello Rodotà» è firmato anche dal presidente degli avvocati italiani), mentre non pochi dei secondi sono dei teorici, di alto spessore morale, ma del tutto avulsi dal pragmatismo del diritto applicato quotidianamente nelle aule dei tribunali italiani.Ora, se è certamente vero che il nostro ordinamento prevede i reati di suicidio assistito e di omicidio del consenziente, è altrettanto vero che i giudici non li hanno applicati ai due casi più eclatanti di eutanasia passiva: Welby ed Englaro. Nel primo caso, proprio i giudici penali, pur astrattamente configurando quei reati, hanno ritenuto che il medico che procedette al distacco del ventilatore a Welby non era punibile in quanto eseguiva le volontà del paziente. Nel caso Englaro, l’accusa all’équipe medica è stata archiviata dalla Procura in quanto la sospensione di alimentazione e idratazione era stata autorizzata da un giudice. Due casi, insomma, di eutanasia passiva ammessi nel nostro ordinamento: la legittimità dei comportamenti individuali al dunque la decidono i giudici e non i teorici del sistema.Non solo. Nel frattempo, il punto più debole del caso Englaro (la ricostruzione della volontà del paziente attraverso presunzioni e testimonianze) si sta quotidianamente colmando attraverso due vie, una giudiziaria, l’altra amministrativa. Quella giudiziaria vede protagonisti alcuni giudici tutelari che ritengono che l’istituto dell’amministrazione di sostegno, finalizzato a prestare assistenza alle persone non autonome, possa ben utilizzarsi per raccogliere dichiarazioni anticipate e quindi renderle esecutive allorquando l’assistito finisse in uno stato di incoscienza. La via amministrativa vede invece protagonisti alcuni Comuni italiani che hanno istituito albi relativi a biotestamenti. In entrambi i casi, sebbene si sia ampiamente segnalata la distorsione delle procedure, non si registrano allo stato prese di posizione giudiziarie che ne abbiano impedito l’attuazione.Dunque? Dunque è purtroppo facile pronosticare che di qui a poco avremo altre sentenze che legittimeranno "testamenti biologici" e conseguenti vicende di eutanasia passiva, forti del fatto cha anche il punto debole della ricostruzione della volontà del paziente incosciente è sanato dalle dichiarazioni anticipate espresse all’amministratore di sostegno o nell’albo comunale. Ed è altrettanto facile pensare che se ciò oggi non sia ancora avvenuto è proprio perché, essendo pendente una legge a riguardo, essa abbia agito da deterrente. Ma è evidente che se si decidesse di archiviare questa legge, il sistema giuridico italiano offrirebbe nel suo complesso gli elementi ricordati per consentire alla giurisprudenza di accogliere altri casi di richieste eutanasiche. Senza neanche scomodare troppo la creatività, e con tutte le giustificazioni del caso, stante appunto l’inerzia del legislatore.Si comprende a questo punto perché i paladini dell’autodeterminazione, in gran parte giuristi e avvocati, abbiano colto nella proposta di legge pendente alla Camera un bel passo indietro rispetto a quanto già oggi può ottenersi nella aule dei tribunali. E si capisce perché critichino la proposta di legge con tutta la forza possibile e puntino a farla arenare. Non è sufficiente questa facile constatazione per ravvedere le intelligenze di quei giusti difensori della vita umana e farli scendere dai piani alti della teoria sino al terreno scivoloso e decisivo delle aule giudiziarie?
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