mercoledì 23 marzo 2011
All’Università europea di Roma riflessioni a più voci sulle discriminazioni alle persone con disabilità. Il rettore Scarafoni: il principio che rimane fermo è che l’uomo non può disporre della vita.
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«Nel caso di disabilità grave, che è quella dello stato vegetativo, bisogna lavorare perché queste persone possano conservare la loro vita, la loro dignità e il loro benessere». Ma è «abbastanza difficile pensare che sia "benessere" togliere l’idratazione a chi è incapace di opporsi a questo intervento, anche perché qualsiasi consenso o dissenso può esser interrotto dalla persona in caso di sofferenza, mentre chi non ha capacità di reagire rischiamo di farlo soffrire senza che possa opporsi». Lorenza Violini – ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Milano e membro supplente del Consiglio di amministrazione dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) – non ha dubbi: quella sulle Dat in discussione alla Camera «è una legge importante, necessaria, soprattutto per porre rimedio a delle degenerazioni giurisprudenziali» come nel caso di Eluana Englaro. Una vicenda drammatica, che ieri sera al convegno organizzato dall’Università europea di Roma su «Discriminazioni e persone con disabilità» è stata riportata come esempio paradigmatico, ma non unico, di forme di disabilità che hanno bisogno del sostegno costante delle famiglie che se ne fanno carico e, quindi, hanno bisogno di maggiori risorse. Il punto fondamentale quando non si è autosufficienti è l’aspetto assistenziale: primo fra tutti, ovviamente, la semplice nutrizione. «È molto importante che ci sia il divieto di disporre di alimentazione e idratazione», tranne i casi in cui la persona non è più in grado di assorbirla. Ma, ha chiarito subito Violini, «a nessun medico verrebbe in mente di nutrire un malato terminale prossimo alla morte. Sollevare simili argomenti è pretestuoso. Si usa questa ovvietà – ha ribadito poi – per mettere in crisi un principio di civiltà, che è quello secondo cui alle persone, in qualsiasi stato, non può essere negata la cura base, quella primaria del mantenimento». «Gli stati vegetativi non sono i candidati alle Dat, perché dietro questa idea c’è una profonda discriminazione, cioè che la loro qualità della vita non esista e che quindi siano persone che in realtà devono morire», ha poi sottolineato il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella. Con la legge sulle Dat, ha poi spiegato, «cerchiamo di far proseguire l’alleanza terapeutica anche oltre lo stato di coscienza del paziente. Superando il paternalismo medico e sconfiggendo un quadro di autodeterminazione. Criterio che alla fine può diventare anche illiberale». Regolare «il consenso informato e applicarlo – ha aggiunto – intanto è una presa d’atto di una situazione, perché il consenso ormai è nella prassi. Nessun medico oggi farebbe un intervento prescindendo dal consenso». Nella legge è prevista la non vincolatività per il medico: «Noi cerchiamo di proseguire il rapporto di alleanza terapeutica – ha precisato il sottosegretario – tenendo conto in materia anche di quanto indica la Convenzione di Oviedo, ma mettendo un argine forte rispetto al modo con cui si vuole introdurre il criterio di autodeterminazione nei confronti dell’eutanasia». D’accordo sui contenuti della legge anche il rettore dell’ateneo, padre Paolo Scarafoni. «È una legge conveniente più che necessaria – ha detto –. Il principio che rimane fermo è che l’uomo non può disporre della vita. Fissati questi paletti pertanto c’è una deontologia che deve assicurare delle cure normali, ma anche idratazione e nutrizione. Le dichiarazioni anticipate di trattamento – ha precisato – dovrebbero rimanere sempre delle indicazioni. Deve essere il medico a decidere». E sull’urgenza del testo nessun dubbio: «Se non si legifera, si arriverà a definire una prassi che è molto permissiva e che è praticamente eutanasia attiva».
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