lunedì 22 aprile 2019
«Occorre combattere una battaglia culturale per fa­vorire cure e assistenza al­le persone in ogni condizione e in ogni momento della vita»
Suor Costanza Galli

Suor Costanza Galli

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«Occorre combattere una battaglia culturale per fa­vorire cure e assistenza al­le persone in ogni condizione e in ogni momento della vita. Anche per i miei pazienti in hospice c’è sempre qual­cosa da fare in positivo: le cure pallia­tive sono un dovere per offrire una morte degna a ogni persona, la cui vi­ta è sempre degna». Suor Costanza Gal­li, primario dell’hospice dell’Ospeda­le di Livorno (Usl Toscana Nord Ove­st), offre un duplice sguardo sulle te­rapie nel fine vita, sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e nel dibattito sull’eutanasia: ha la sensibi­lità delle Figlie della Carità di san Vin­cenzo de’ Paoli, e la competenza del medico in un ospedale pubblico.

Come è nata questa sua duplice voca­zione, di medico e di suora?


Si tratta di due chiamate a cui ho ri­sposto. Prima a quella di medico: lo so­gnavo sin da bambina, alle elementa­
ri giocavo con le valigette del dottore. La vocazione religiosa è sorta durante l’università, ma mi sono laureata e spe­cializzata prima di diventare suora. E come ha insegnato san Vincenzo, nel malato vedo il povero e la presenza stessa di Cristo. Come medico ho il mio curriculum, nell’ospedale pubblico so­no giunta vincendo concorsi, condivi­do i turni, le notti, il lavoro festivo, il cartellino da timbrare...

Nel fine vita come si preserva la di­gnità
dei malati?

Oggi siamo di fronte a forti contraddi­zioni. Sui media si sventola la bandie­ra dell’autodeterminazione e sembra che ci sia un esercito di persone che vuole “autodeterminarsi”, o chiede l’eutanasia. In hospice rileviamo che è molto più ampia la quantità di perso­ne che non sa nemmeno da quale ma-l­attia è affetto, perché i familiari non vogliono. Il concetto della dignità è il problema culturale di oggi, e lo rilevo anche fuori dall’ospedale. Sembra che non sia più considerata una caratteri­stica
propria dell’esse­re umano, da quando nasce a quando muo­re. Viceversa è diffusa l’idea che la dignità sia un bene accessorio, che dipende dalle situazioni, dalle capacità e dalle prestazioni. Per noi cristiani la persona, creata a im­magine e somiglianza di Dio, ha sem­pre un’altissima dignità. Ma anche pre­scindendo dalla visione religiosa, la di­gnità è un concetto antropologico fon­damentale, riguarda tutti indipenden­temente dalle condizioni: non la cam­biano né malattia né colore della pel­le, né colpa.

Che conseguenze ha nella pratica clinica questa idea di dignità?

Se si pensa che la vita sia degna “solo se” ha determinate caratteri­stiche o funzionalità è facile poi ritenere che a un certo momento, in loro assenza, la vita “non sia più de­gna” e si favoriscano soluzioni euta­nasiche. Un’idea che si riscontra non solo tra i cittadini ma talvolta anche tra gli operatori sanitari. E un concetto “funzionalistico” di dignità fa sì che an­che le relazioni con gli altri finiscano con avere importanza “solo se” e fino a quando mantengono certe caratte­ristiche,
se mi portano vantaggi.

La legge sulle Dat ha cambiato la vo­stra
attività?

Ho viste ben poche novità, finora. Il problema di solito è quello del corret­to consenso informato. Quando si of­frono cure anche i malati in hospice guardano alla vita in modo diverso. Ri­cordo una giovane donna che siamo riusciti a mettere in carrozzina: ci ha ringraziati, e già guardava all’obiettivo successivo di mettersi in piedi. Faccio coordinamento su un territorio am­pio: le sofferenze maggiori dei malati, e le rare richieste di farla finita, mi so­no giunte non da chi soffriva troppo ma da chi si sentiva un peso per gli al­tri, per i familiari, o si vedeva inade­guato al modello “funzionalistico”.


Una legge sull’eutanasia cosa com­porterebbe per il lavoro in hospice?


Sarebbe una contraddizione. Come cit­tadina mi domando perché lo Stato do­vrebbe dare la possibilità di togliersi la vita a un paziente al quale non sa in­vece garantire, con le cure palliative,
tutte le opportunità di cui ha bisogno e diritto. Ci sono ricerche scientifiche che confermano che le richieste di eu­tanasia calano dove sono disponibili cure palliative adeguate. In Italia c’è un’ottima legge (la 38 del 2010) sulle cure palliative, naturale antidoto al­l’accanimento e all’eutanasia: ma no­nostante facciano parte dei Livelli es­senziali di assistenza (Lea) le cure pal­liative non sono ancora adeguate né distribuite equamente sul territorio. E su di esse non rilevo nemmeno gran­de pressione della società civile, che protesta spesso per le mancanze della sanità. Il progetto di legge in discus­sione ora mi pare ambiguo: non di­stingue il malato terminale da chi non lo è. La rinuncia a interventi come nutrizione e idratazione, che può avere senso in un paziente terminale, assu­me un significato diverso se il sogget­to è in stato vegetativo: in questo caso la morte avviene perché ho interrotto la nutrizione, non per una malattia.

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