mercoledì 13 aprile 2011
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Quando si parla di vita si dovrebbero adottare tutte le cautele possibili. Il tema è delicatissimo, di quelli che coinvolgono le persone nel loro intimo. Quando si arriva sulla soglia dell’esistenza umana, quando i giorni si fanno cortissimi e il nostro quotidiano affannarsi si tramuta in un flebile respiro bisognoso di ogni assistenza, allora i contorni del dibattito su come comportarsi in quei frangenti diventano davvero poco nitidi.Il controverso caso di Eluana Englaro ha portato agli onori della cronaca solo quell’unica esperienza, mentre ha lasciato senza voce migliaia di altre vicende che vanno avanti nel silenzio assoluto dei grandi mezzi di comunicazione. Tantissime famiglie faticano e condividono ogni giorno il dolore per una grave infermità o per una malattia terminale. Nessuno, comunque, può e deve avere il diritto di ergersi a giudice e decidere quando porre fine ai giorni terreni né propri né di chi gli vive accanto, cosciente o incosciente che sia. L’alleanza tra medico e paziente prevista dal disegno di legge sulle Dat in discussione in queste settimane in Parlamento offre ampie garanzie in questo senso.Per questo motivo ho firmato l’appello apparso su Avvenire il 12 marzo, poi rilanciato dalle sigle che compongono il Copercom. Per la verità non ci dovrebbe essere bisogno di una legge in tema di fine vita. Finché c’è vita nessuno dovrebbe intervenire per interromperla. Ma siccome si è smarrito questo comune senso dell’esistenza, si è resa necessaria una legge in materia per non lasciare i più deboli in balia di "sentenze creative" che, come nel drammatico caso di Eluana, hanno permesso di interrompere alimentazione e idratazione. Queste pratiche rientrano nella cura normale che qualsiasi familiare assicura sempre ai propri cari. Se si dice di no all’accanimento terapeutico, occorre anche evitare l’abbandono terapeutico. Com’è anche importantissimo applicare il principio di precauzione: nel dubbio ci si schiera dalla parte della vita, e non si rischia nulla contro di essa.In tutto questo il mondo della comunicazione gioca un ruolo spesso decisivo. Prima di tutto ha il dovere, per professione, di informare. Nella battaglia ideologica che su questi temi si sta combattendo da tempo, la cattiva e parziale informazione fa parte di un modus operandi che non aiuta il cittadino a formarsi una corretta opinione. Fra malati terminali e disabili gravi esiste una notevolissima differenza. Sovente, invece, vengono messi sullo stesso piano per far passare il messaggio – fuorviante – che si è di fronte a persone senza speranza.Ho avuto occasione, negli anni, di avvicinare diversi casi di ammalati molto gravi, bambini, giovani, adulti, anziani. Ho ascoltato le loro storie e quelle delle loro famiglie. Ogni volta mi sono avvicinato in punta di piedi a questi "santi del quotidiano". Mai mi è capitato di incontrare gente disperata. Anzi: sono sempre stato arricchito da esperienze che mi hanno ancora di più attaccato alla vita. A queste persone – disabili, ammalati, famiglie – dobbiamo stare accanto. Per rispetto a loro va chiesta e ottenuta una legge che ponga un freno alla babele d’idee e iniziative di fatto eutanasiche.
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