sabato 21 febbraio 2015
Genitori adottivi, «il 50 per cento ha fallito con la provetta». Pesano anche le scelte di molti Paesi dell’Est e dell’Asia di ridurre il numero dei bambini “disponibili” per l’Occidente.
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Adozioni in Italia, il pianeta dell’interminabile eclissi ma anche dei raggi di luce inattesi. Mentre cala ancora in modo nettissimo il numero di bambini che sbarcano nel nostro Paese per essere accolti da una famiglia, arriva la prima ricerca scientifica che mette in luce in modo indubitabile il valore del "fattore F". Avere un padre e una madre è la terapia migliore non solo per il recupero di svantaggi cognitivi pregressi, ma anche per aiutare i bambini a riprendere la crescita fisica. Peccato che i piccoli a cui viene concessa questa possibilità siano sempre di meno. Il 30% rispetto al 2013 e addirittura il 50% in meno rispetto al picco del 2010, quando furono 4.130 i bambini autorizzati ad entrare nel nostro Paese. Le proiezioni 2014 presentate da Aibi – in attesa del report ufficiale della Cai – parlano di una forbice che oscilla tra i 1.900 e i 2.100 minori.  Generosità delle famiglie italiane messa a dura prova dalla crisi? Costi crescenti tra spese per le pratiche burocratiche e per raggiungere e trattenersi a lungo nei Paesi d’origine dei bambini? Lungaggini estenuanti per quanto riguarda l’iter dell’adozione? In realtà la questione è molto più complessa. Bisogna considerare che numerosi Paesi che, soltanto fino a pochi anni fa, rendevano disponibili per l’adozione un numero elevato di bambini, hanno deciso di intervenire con drastici tagli. «Le realtà più colpite – spiega Marco Griffini, presidente Aibi – sono l’Etiopia, la Federazione Russa e la Repubblica democratica del Congo. Nella prima gli iter adottivi vanno fortemente a rilento, mentre Mosca ha deciso di dimezzare il numero dei bambini disponibili per l’adozione internazionale, da duemila a mille. In Congo la situazione è ancora bloccata dal settembre 2013». Maglie più strette anche in Cambogia, passata dalle 554 adozioni del 2011 alle 179 del 2013. E in Ucraina, passata dai 297 bambini accolti nel 2011 ai 146 del 2013. Decisioni che se, da un lato, potrebbero essere viste come penalizzanti nella prospettiva di offrire una famiglia ai bambino che ne sono privi, dall’altra non andrebbero liquidate in modo troppo frettoloso come immotivate. Perché, come più volte ribadito dagli esperti del settore, va considerato che non pochi dei Paesi tradizionalmente "generosi" nella disponibilità di minori adottabili, stanno ratificando la convenzione dell’Aja – l’Italia l’ha fatto nel 1998 – che impone l’obbligo di mettere in atto tutti i meccanismi necessari per incentivare l’adozione nazionale e limitare "l’esportazione" al minimo indispensabile. E che questo avvenga, dall’Asia all’Africa, ai Paesi dell’Est, non può che essere considerata una scelta positiva, sempre che allo stesso tempo questa decisione si traduca anche in buone prassi per il futuro dei piccoli anche "in loco", nel pieno rispetto della loro dignità.Eppure, nella ricerca delle cause che hanno determinato il crollo delle adozioni in questi ultimi cinque anni, il dato geopolitico non risulta esaustivo. Perché c’è un altro fattore che va considerato, quello di scelte personali segnate dalla progressiva perdita di quei valori di solidarietà, di generosità e di apertura alla vita che dovrebbero caratterizzare la volontà di adottare. Oggi si arriva sempre più spesso all’iter adottivo in seconda battuta. La metà delle coppie che sono state al centro della ricerca realizzata dall’Università Cattolica con l’Asl 1 di Milano, di cui parliamo qui sotto, avevano alle spalle vari tentativi di fecondazione assistita, nelle sue diverse tipologie. E, solo il fallimento di uno o più tentativi, ha convinto queste persone ad orientarsi verso l’adozione. Passaggio comunque positivo, ma che non cancella il dato culturale di partenza. Ora, a queste coppie è chiesto il non facile passaggio dal sogno – a volte una vera e propria pretesa – di un figlio simile a sé e in cui rispecchiarsi, all’accoglienza di un altro bambino come figlio proprio, portatore del proprio cognome e quindi continuatore di sé e della propria storia familiare. Il fatto che questo bambino sia diverso, magari con tratti somatici differenti, e con abitudini e lingua differenti, implica una sfida non semplice con se stessi e con il proprio immaginario. Difficile, sì. Ma chi riesce a vincerla sarà un genitore meritevole di aver trasformato un diritto in dono. Quello che un figlio dovrebbe sempre e comunque essere considerato.
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