Un argine alle sentenze che dettano regole sul fine vita

Gli ormai numerosi pronunciamenti della Corte costituzionale sul suicidio assistito hanno composto un quadro complesso, specie sul ruolo del Servizio sanitario e del Comitato nazionale di valutazione, nel quale solo una legge può riportare ordine, coerenza e limiti definiti
November 19, 2025
Un argine alle sentenze che dettano regole sul fine vita
Il Palazzo della Consulta a Roma, sede della Corte costituzionale
Avvenire ospita un confronto sulle ragioni della vita umana - etiche, giuridiche, mediche, antropologiche, dottrinali - di fronte a una possibile legge sul suicidio assistito, ospitando firme illustri del diritto, della medicina, della teologia, della bioetica (tutti gli interventi cliccando qui). Ecco la riflessione del giurista Paolo Cavana.
Il dibattito sul fine vita è ripreso in Parlamento. Il quadro normativo in materia era già stato delineato dalla legge n. 219/2017, che riconosce il diritto di ogni paziente di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche di tipo salva-vita, il divieto di accanimento terapeutico e, in caso di sofferenze refrattarie ai trattamenti medici e alle cure palliative, il ricorso da parte del medico, con il consenso del paziente, alla sedazione palliativa profonda continua, con un limite: «Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» (articoli 1-2).
Il dibattito è stato riaperto, come noto, da una sentenza della Corte costituzionale, la n. 242/2019, che, partendo da una fattispecie molto specifica, ha superato il limite indicato dal legislatore entrando a gamba tesa in un’area, quella della punibilità penale – nello specifico l’articolo 580 del Codice penale sull’istigazione o l’aiuto al suicidio – che sarebbe riservata al Parlamento, in quanto soggetta al principio di stretta legalità (articolo 25, comma 2, della Costituzione). Ci si potrebbe chiedere che senso abbia continuare ad affermare tale principio, che vincola il legislatore agli stretti canoni di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, se poi la Corte può riformularla introducendo concetti vaghi e generici, come «patologia irreversibile» e «trattamenti di sostegno vitale», che aprono la strada a plurime interpretazioni, con il rischio di svuotare la fattispecie e i valori che vi sono sottesi.
Paolo Cavana
Paolo Cavana
A questo punto, tenuto conto anche di successive pronunce della Corte che tendono di fatto ad ampliare l’originaria area di non punibilità penale dell’aiuto al suicidio – proposito suicidario liberamente formato da una persona capace, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, e verifica di tali condizioni da parte di una struttura pubblica – l’intervento del legislatore nazionale appare necessario per cercare di arginare una pericolosa deriva giurisprudenziale che ha alimentato anche interventi in materia delle Regioni, nella speranza che la Corte ritrovi il senso dei propri limiti in un ordinamento di tipo democratico e quel self-restraint che un tempo era suo vanto.
Nel luglio scorso le Commissioni riunite del Senato hanno proceduto all’adozione di un testo unificato, elaborato a partire dai numerosi progetti di legge già depositati, intitolato “Modifiche all’articolo 580 del Codice penale e ulteriori disposizioni esecutive della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale”, con l’obiettivo di giungere a una disciplina condivisa. Il testo, dopo la riaffermazione del primato del diritto alla vita (articolo 1), riformula l’articolo 580 del Codice penale recependo le indicazioni della Corte ma introducendo anche alcune novità (articolo 2): la maggiore età del paziente, escludendo pertanto i minori; il suo necessario inserimento nel percorso di cure palliative, di cui si prevede un rafforzamento in tutte le regioni, pena in caso di inadempienza la nomina di un commissario ad acta da parte del Governo, così da configurare il ricorso al suicidio medicalmente assistito solo come extrema ratio; l’accertamento dei requisiti da parte non dell’Usl territorialmente competente ma di un Comitato nazionale di valutazione composto da esperti nominati dal Presidente del Consiglio; infine l’esclusione del Servizio sanitario nazionale da ogni coinvolgimento nella procedura, che potrà essere attuata solo in ambito privato.
Queste ultime due novità, di cui pure risulta condivisibile la ratio di contenimento del ricorso a una pratica la cui legalizzazione rischia di impattare gravemente sulla coscienza sociale e sui princìpi di deontologia medica, abbassando la soglia di tutela della vita umana, si espongono tuttavia a qualche rilievo. Innanzitutto: la prevista esclusione del Ssn dalla procedura rischia di tradursi in una forma di abbandono del paziente, sottraendolo a quella necessaria “rete di protezione” e di garanzie, ispirate ai doveri di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione, che la Repubblica deve assicurare a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro condizioni economiche e dalle scelte di fine vita, peraltro sempre revocabili, soprattutto se vivono situazioni di sofferenza e angoscia come quelle che preludono al suicidio assistito. In secondo luogo, la valutazione dei requisiti per l’accesso al suicidio assistito da parte di un organo esterno è apprezzabile nella misura in cui mira a rimuovere il conflitto di interessi in cui si troverebbe invischiata l’Usl per le evidenti implicazioni economiche dell’accesso a tale procedura (risparmio di spesa per le cure palliative, etc.) ma non la sua nomina da parte di un organo politico come il capo del Governo: meglio sarebbe forse la nomina da parte del ministro della Salute, magari su proposta di un suo organismo tecnico come il Consiglio superiore di sanità.
Paolo Cavana è professore ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università Lumsa di Roma

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