Tassi record e rinegoziazioni negate, così il debito strozza i Paesi fragili
Il nuovo rapporto di Banca mondiale evidenzia che in tre anni le economie in via di sviluppo hanno registrato un saldo negativo di 741 miliardi di dollari tra rimborsi e nuovi finanziamenti

Tassi a doppia cifra, deflussi che superano i nuovi finanziamenti, ostacoli alle rinegoziazioni, bilanci drenati da interessi insostenibili. La voragine che separa i Paesi più ricchi e le economie più fragili si fa più profonda, all’interno di un sistema globale in cui la normalizzazione dei mercati finanziari non coincide con un miglioramento reale per i Paesi in via di sviluppo. Se infatti la discesa dell’inflazione e il rallentamento del ciclo restrittivo hanno restituito un po’ di stabilità ai flussi internazionali, questo processo non si è tradotto in un sollievo sostanziale per il Sud del mondo. La pressione del debito resta infatti la variabile che determina più di ogni altra le scelte di bilancio, le priorità sociali e la capacità di programmare interventi di medio periodo. Tra il 2022 e il 2024 – sintetizza il Rapporto internazionale sul debito, appena diffuso da Banca mondiale – i Paesi a basso e medio reddito hanno trasferito ai creditori 741 miliardi di dollari più di quanto abbiano ottenuto in nuovi finanziamenti: è il deflusso più ampio degli ultimi cinquant’anni.
Le conseguenze si concentrano nelle economie già indebolite: nei ventidue Paesi dove il debito estero supera il 200% dei ricavi da esportazione, oltre metà della popolazione non riesce a sostenere una dieta minima adeguata. Il rapporto non fa ricorso a interpretazioni, ma presenta questi numeri come indicatori della profondità con cui il debito condiziona la vita economica e sociale di economie drenate e impossibilitate a investire in settori come welfare o infrastrutture. Di più: tutto ciò si traduce, come accaduto in Kenya e in altri Paesi, in rabbia sociale e in proteste violente.
Lo stock complessivo del debito esterno dei Paesi in via di sviluppo ha toccato nel 2024 quota 8,9mila miliardi di dollari, con 1,2mila miliardi concentrati nelle economie degli Stati più fragili (Ida) che ricevono assistenza da Banca mondiale. Parallelamente, il costo dei finanziamenti si conferma elevato: i tassi medi pagati dalle economie deboli ai creditori ufficiali sui nuovi prestiti hanno raggiunto il punto più alto degli ultimi 24 anni, mentre quelli corrisposti ai creditori privati non toccavano livelli simili da 17 anni. Il risultato è un esborso totale di 415 miliardi di dollari in soli interessi. Sono risorse sottratte a investimenti essenziali e che, come rilevato di recente anche dall’organismo dell’Onu Unctad, limitano la possibilità dei Paesi più fragili di costruire scuole, potenziare i sistemi sanitari e sviluppare infrastrutture critiche. Il debito non è quindi soltanto un indicatore di salute macroeconomica: è un freno che rallenta la modernizzazione, la produttività e l’inclusione in vaste zone dell’Africa, del sud-est asiatico, dei Paesi del centro e del Sudamerica.
Eppure, nel 2024 si è osservato un movimento inatteso. I mercati obbligazionari, pressoché serrati l’anno precedente, hanno riaperto e gli investitori sono tornati a collocare capitali nei titoli sovrani dei Paesi emergenti. Il saldo è positivo per 80 miliardi di dollari. Alcuni governi hanno utilizzato questa finestra per rinnovare scadenze imminenti e stabilizzare il profilo del debito. Ma i tassi richiesti, spesso attorno al 10%, mostrano che la disponibilità degli investitori non coincide con una riduzione della vulnerabilità. L’accesso al mercato resta insomma subordinato a condizioni costose, che non modificano il quadro di fondo.
Il 2024 è stato anche l’anno con il maggior numero di ristrutturazioni del debito dal 2010: 90 miliardi di dollari rinegoziati. Ghana, Haiti, Somalia e Sri Lanka rappresentano alcuni dei casi più complessi. In molti interventi, la riduzione dell’esposizione di lungo termine è stata consistente. Tuttavia, le ristrutturazioni non risolvono uno dei problemi principali messi in evidenza dal rapporto: oggi solo il 7% del debito pubblico a lungo termine dei Paesi in via di sviluppo è nelle mani dei Paesi membri del Club di Parigi, mentre quasi il 60% appartiene a investitori privati, molto più restii a concessioni. La molteplicità degli attori coinvolti rallenta i processi, aumenta l’incertezza e limita la capacità dei Paesi debitori di ottenere un alleggerimento coordinato. Nel frattempo, i creditori bilaterali hanno cambiato atteggiamento. Dopo aver partecipato alle ristrutturazioni più urgenti, nel 2024 hanno ridotto il livello di sostegno, con un saldo netto negativo di 8,8 miliardi di dollari. Al contrario, le istituzioni multilaterali hanno ampliato il loro intervento. La Banca mondiale ha fornito 18,3 miliardi di dollari netti in nuovi finanziamenti ai Paesi Ida e 7,5 miliardi in sovvenzioni, entrambi dati record. Senza questo contributo, osserva il rapporto, molte economie avrebbero faticato a evitare una nuova fase di instabilità fiscale.
In assenza di alternative immediate, numerosi governi del Sud del mondo hanno aumentato il ricorso ai mercati domestici. In più della metà dei Paesi analizzati il debito interno è cresciuto più rapidamente di quello estero. Questa scelta, pur segnando uno sviluppo dei mercati finanziari locali, espone le banche nazionali a una maggiore quota di titoli sovrani e riduce la disponibilità di credito per il settore produttivo. Le scadenze più brevi dei titoli domestici, inoltre, amplificano i rischi legati al rifinanziamento.
Nella parte conclusiva, la Banca mondiale sottolinea l’urgenza di adeguare l’architettura del debito a un contesto radicalmente cambiato. Il sistema attuale nasceva in un’epoca di relazioni più lineari tra debitori e creditori. Oggi la complessità è aumentata, e si sommano vulnerabilità fiscali, finanziarie e climatiche. Proprio la componente ambientale è diventata uno dei nodi centrali del dibattito. Molti Paesi in via di sviluppo, pur considerati debitori sul piano finanziario, sono creditori sul piano ecologico, avendo contribuito in misura minima alle emissioni storiche e subendo però gli impatti più severi della crisi climatica. Il mancato riconoscimento di questo credito ambientale contribuisce a mantenere alto il peso del debito finanziario.
All’inizio dell’anno giubilare, ormai prossimo alla conclusione, papa Francesco aveva rilanciato l’appello alla remissione dei debiti dei Paesi più poveri, collegando giustizia economica e giustizia climatica. La richiesta riguardava tanto il debito tradizionale quanto la necessità di riconoscere il ruolo che molti Paesi vulnerabili svolgono nella tutela degli ecosistemi globali. Il rapporto della Banca mondiale non affronta direttamente il tema normativo, ma i dati che presenta suggeriscono che senza integrare la dimensione ecologica nelle politiche di gestione del debito, la stabilizzazione osservata nel 2024 resterà precaria.
L’impressione finale è quella di un equilibrio fragile. Per le economie più deboli, la questione non è soltanto evitare nuove crisi, ma ottenere il margine necessario per investire in futuro. Finché il peso del debito continuerà a comprimere questa possibilità, lo sviluppo rimarrà un obiettivo condizionato. E il credito ecologico che questi Paesi hanno accumulato resterà, ancora una volta, un patrimonio riconosciuto a parole ma non contabilizzato nei meccanismi che potrebbero davvero alleggerire il loro percorso.
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