Nozze tra coppie dello stesso sesso, perché la sentenza Ue non ha (veri) effetti
di Alberto Gambino ed Emanuele Bilotti
Il recente pronunciamento col quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha voluto estendere la disciplina sull’unione tra persone dello stesso sesso da un Paese dov’è ammesso ed equiparato in tutto al matrimonio presenta non solo aspetti critici ma anche punti sui quali la logica giuridica nazionale e comunitaria dice altro

La recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea trae origine dal rifiuto delle autorità polacche di trascrivere il matrimonio contratto in Germania tra due cittadini polacchi dello stesso sesso. Il diniego è stato motivato in quanto il diritto polacco non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Né potrebbe farlo in ragione di un espresso vincolo costituzionale. La trascrizione richiesta – e rifiutata – avrebbe dunque violato principi fondamentali di quell’ordinamento giuridico.
La Corte di Lussemburgo ha stabilito che tale rifiuto è contrario al diritto dell’Unione. E ciò in quanto, impedendo che la vita familiare della coppia che ha avuto inizio in uno Stato membro possa continuare in altro Stato membro senza gravi inconvenienti, quel rifiuto pone un ostacolo all’esercizio della libertà di circolazione e soggiorno garantita ai cittadini dell’Unione dai Trattati e dal diritto derivato: un ostacolo non giustificabile in alcun modo, in quanto destinato a tradursi in una violazione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare riconosciuto ad ogni individuo dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Ciò posto, bisogna però precisare che la Corte di Lussemburgo ha anche chiarito in maniera inequivocabile che non sussiste un obbligo degli Stati membri di introdurre nel proprio diritto interno il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E ciò né in virtù del diritto dell’Unione, dato che viene qui in considerazione una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione, né in virtù delle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
È vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha chiarito da tempo che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone agli Stati membri un obbligo positivo di prevedere anche per le coppie formate da persone dello stesso sesso un quadro giuridico che sia idoneo a garantire il diritto di ciascuno dei suoi componenti al rispetto della propria vita privata e familiare. Ma la Corte di Strasburgo ha anche precisato che, nell’adempiere a quest’obbligo, lo Stato dispone comunque di un certo “margine di apprezzamento”. Ciò vuol dire appunto che il cosiddetto matrimonio egualitario non rappresenta affatto una scelta obbligata. Lo Stato deve ritenersi adempiente all’obbligo derivante dalla Convenzione anche laddove il diritto fondamentale di ogni individuo al rispetto della vita privata e familiare sia garantito attraverso un istituto diverso dal matrimonio, che può dunque rimanere riservato alle sole coppie formate da un uomo e da una donna.
È quel che ha fatto il legislatore italiano disciplinando l’unione civile tra persone dello stesso sesso: un istituto diverso dal matrimonio non solo sotto un profilo puramente nominalistico e formale ma anche per essenza, come è attestato in maniera inequivocabile sia da taluni profili di disciplina – si pensi, ad esempio, alla possibilità riconosciuta a ciascuno degli uniti civilmente di recedere liberamente dal rapporto con un preavviso di tre mesi... – sia dalla differente copertura costituzionale dell’una e dell’altra forma giuridica. L’unione civile non trova infatti fondamento nell’articolo 29 della Costituzione, e cioè nella norma posta a garanzia dell’istituto familiare, ma nell’articolo 2, che riconosce e tutela i diritti fondamentali dell’individuo anche nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità.
Il legislatore italiano ha così adempiuto all’indicato obbligo internazionale e al corrispondente obbligo interno derivante dall’articolo 2 della Costituzione. Ma ha preservato al contempo la regola della necessaria diversità di sesso dei coniugi: una regola che, come ha chiarito a più riprese anche la Corte costituzionale, è anch’essa costituzionalmente necessaria in ragione del disposto dell’articolo 29.
Sempre nel rispetto delle due esigenze indicate il legislatore italiano ha poi risolto anche il problema del riconoscimento in Italia dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. A seguito dell’introduzione della disciplina dell’unione civile, infatti, è ora previsto che quei matrimoni producano gli stessi effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana: effetti, come si è detto, ritenuti senz’altro idonei a garantire il rispetto della vita privata e familiare degli individui coinvolti.
È chiaro, allora, che la recente decisione della Corte di Giustizia non può avere alcun rilievo per l’ordinamento italiano. Diverso è il caso della Polonia, che non ha previsto una disciplina dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso. Neppure la Polonia è però obbligata a introdurre nel proprio ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E con ciò a mettere in discussione un principio chiaramente sancito nella propria Costituzione. Il contrasto rilevato dalla Corte di Giustizia tra il diritto polacco vigente e il diritto dell’Unione potrebbe infatti essere risolto anche attraverso una soluzione ispirata al modello italiano: un modello che, come ha mostrato una recente decisione della Corte costituzionale, è senz’altro in grado di resistere alla logica eguagliatrice della non discriminazione.
Alberto Gambino ed Emanuele Bilotti sono professori ordinari di Diritto privato
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