Don Grimaldi: «Il carcere non sia la nostra vendetta»

Domenica 14 dicembre il Giubileo dei detenuti. Parla l'Ispettore generale dei cappellani nei penitenziari: «Bisogna credere nella possibilità di cambiamento»
December 9, 2025
Don Grimaldi: «Il carcere non sia la nostra vendetta»
Don Raffaele Grimaldi incontra Papa Leone XIV
In ordine cronologico è l’ultimo dei grandi eventi del Giubileo e avrà come protagonisti proprio quelli che vengono considerati come gli ultimi, ma che nella logica evangelica «saranno i primi». Domenica 14 dicembre persone detenute provenienti dalle carceri italiane e dall’estero varcheranno la Porta Santa della basilica di San Pietro per ottenere l’indulgenza e incontrare Papa Leone XIV che presiederà la messa. «E’ un evento nel segno della misericordia, quella che solo Dio può dare e che non conosce confini, non si ferma neppure davanti ai delitti più efferati. E nel segno della speranza, la parola simbolo del Giubileo. Una speranza che non delude, come dice il titolo della Bolla di indizione scelto da Papa Francesco, e che per molti di loro ha significato l’inizio di un percorso di cambiamento proprio nei momenti più dolorosi». Don Raffaele Grimaldi dal 2017 è Ispettore generale dei 250 cappellani presenti nei penitenziari italiani, ha alle spalle 23 anni come cappellano in quello di Secondigliano. Con Avvenire traccia un bilancio di quello che rappresenta il Giubileo in luoghi segnati dalla sofferenza e da problemi annosi e irrisolti: il sovraffollamento, la carenza di programmi educativi, di personale e di misure alternative alla detenzione, i suicidi, fino all’assenza di un provvedimento di clemenza da molte parti auspicato ma rimasto lettera morta. «Sono tutti problemi sui quali è necessario e urgente intervenire per rendere più umana una condizione dolorosa perché segnata anzitutto dalla privazione della libertà. Ma questo non ha impedito che la fiamma della speranza restasse accesa, perché la grazia di Dio si rende presente anche in condizioni proibitive. E tenere viva la speranza è il compito principale di noi cappellani».
Un piccolo simbolo di questa speranza sono le lampade realizzate dai detenuti di Salerno e consegnate l’8 gennaio in San Pietro ai delegati regionali dei cappellani, che le hanno portate nelle carceri di tutta Italia. E numerose sono state le iniziative promosse negli istituti penitenziari: celebrazioni religiose, momenti di formazione, incontri sui temi della giustizia e del perdono. Domenica in San Pietro arriveranno migliaia di detenuti, religiosi, volontari e personale dell’amministrazione penitenziaria e per i molti che non potranno essere presenti vengono promossi in contemporanea celebrazioni eucaristiche e incontri di preghiera nei penitenziari, alcuni anche con la partecipazione dei vescovi locali. «La nostra presenza non viene meno di fronte agli ostacoli burocratici e normativi - spiega Grimaldi -: la Chiesa non ‘entra’ in carcere come una realtà che arriva dall’esterno, la Chiesa ‘vive’ in carcere ogni giorno. Lo ha testimoniato la decisione di Papa Francesco di scegliere Rebibbia come sede di una Porta santa: una novità assoluta, un messaggio eloquente rivolto a tutta la società e in particolare ai credenti per affermare che la comunità cristiana condivide le fatiche dei detenuti, li guarda come persone e non come autori di reato, li accompagna a prendere consapevolezza degli errori compiuti e testimonia Cristo come Colui che abbraccia la loro condizione e offre la possibilità di un cambiamento. E’ un cammino di condivisione al quale partecipano sacerdoti, religiosi e religiose insieme a migliaia di volontari: una realtà tipicamente italiana, questa, qualcosa di unico nel panorama internazionale, una risorsa che dovrebbe trovare maggiore valorizzazione nell’ordinamento penitenziario».
Per molti la detenzione è diventata la circostanza per una profonda revisione di vita, ha portato a riscoprire una fede alla quale erano stati educati da piccoli ma che avevano accantonato per seguire strade sbagliate. Per qualcuno è diventata l’occasione per scoprire il cristianesimo, grazie all’incontro e all’amicizia con un religioso o con un volontario, arrivando fino alla richiesta del Battesimo: così è accaduto a un albanese detenuto nel carcere di Gorizia che venerdì 12 verrà battezzato durante un evento promosso in occasione del Giubileo a Sacrofano, vicino a Roma, e che domenica incontrerà il Papa. «Quello che potrebbe venire considerato un tempo perduto e maledetto, una parentesi nella quale l’esistenza si ferma in attesa di uscire dal carcere, per molti è diventato tempo propizio: il tempo di Dio, come lo definì Giovanni Paolo II in una lettera inviata a tutte le carceri in occasione del Giubileo del 2000, un’occasione perché la vita possa ripartire». Nella messa che verrà celebrata in San Pietro da Leone XIV le ostie utilizzate per l’Eucarestia arriveranno dai laboratori promossi in questi anni dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti in alcuni penitenziari. «Le mani che si sono macchiate di gravi reati sono le stesse che hanno realizzato le particole destinate a diventare il corpo di Cristo - osserva Grimaldi -: un’attività lavorativa è diventata l’occasione per fare esperienza del valore salvifico del sacrificio di Gesù sulla croce, della rigenerazione umana che nasce dal perdono. E’ una testimonianza offerta alla società che cambiare è sempre possibile, anche per chi ha commesso delitti efferati».
Molti episodi di cronaca - e soprattutto il modo con cui vengono presentati e strumentalizzati dai media - inducono a pensare che la tutela della sicurezza renda necessario un maggiore rigore e comporti una «stretta» nella gestione del sistema penitenziario. «Chi ha sbagliato deve pagare. Non siamo buonisti, siamo realisti - replica don Grimaldi -. Ma proprio per questo una strategia lungimirante non può esaurirsi nella dimensione punitiva - e in fondo vendicativa - che finisce per diventare un boomerang: se in carcere non si costruiscono occasioni di riabilitazione e non si scommette sulla possibilità di un cambiamento delle persone, la situazione può solo peggiorare. In questo senso credo che ci vorrebbe più coraggio anche da parte della magistratura nel proporre alternative alla detenzione. E poi ci sono persone per le quali il carcere non fa che peggiorare la condizione, come i tossicodipendenti e i detenuti con problemi psichiatrici, per loro è urgente promuovere soluzioni diverse, come le comunità. Più in generale, sono convinto che sia necessario una nuova cultura del carcere e un cambiamento di mentalità che coinvolga tutta la società e la renda più accogliente. Per molti l’uscita da un penitenziario diventa uno spauracchio, devono misurarsi con sfide come la ricerca di un lavoro, di una casa, la ricostruzione di un percorso di vita, e fare i conti con diffidenze e ostilità. Per superare ignoranza e pregiudizi può essere utile favorire la conoscenza di un mondo sconosciuto ai più: quando ero parroco portavo le persone a visitare il carcere e questo ha significato per molti un cambio di sguardo su quella realtà». L’attenzione verso i detenuti non deve peraltro far dimenticare le vittime dei loro reati. «La promozione delle esperienze di giustizia riparativa, purtroppo ancora allo stato embrionale, è un grande aiuto per favorire l’incontro tra le parti e per promuovere una cultura dell’incontro e della riconciliazione. E’ qualcosa che può giovare ai colpevoli, alle vittime e a tutta la società, in un’epoca in cui invece cresce una cultura basata sulla contrapposizione». Dopo 23 anni passati come «parroco di Secondigliano» e 8 come coordinatore dei cappellani, cosa ha imparato don Raffaele? «Ho imparato a non giudicare le persone, a non etichettarle in base al male commesso, ad aprire il cuore a una misericordia che è capace di cambiare le persone. Cominciando da me».

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