La Sla & le altre: una grande storia di alleanze per la cura
Comunicare (e conoscere) la verità sulla malattia con parole piene di senso. E di umanità. Un incontro di malati, familiari, medici, ricercatori e giornalisti a Trento promosso da AiSla per uno dei primi diritti delle persone affette da malattie neuromuscolari. “Noi pazienti vogliamo essere messi in grado di vivere”

Ci sono parole che diventano opportunità. Esperienze raccontate che assumono senso e si trasformano in nuovi inizi. È così che nascono progetti capaci di generare il bene, di far incontrare storie e costruire relazioni fatte di futuro.
Questo è ciò che accaduto nel seminario “Linguaggi della Cura”, il 18 ottobre a Trento. Una giornata di riflessione, con tanti esperti, proprio sul tema del valore delle parole nel processo di cura, promossa da AiSla, con AriSla e i Centri NeMO, con il patrocinio e la presenza delle istituzioni del territorio, oltre che dell’Ordine nazionale dei Giornalisti. Un appuntamento voluto, non a caso, dalla comunità di chi la malattia la vive e la conosce fino in fondo, riaffermando come la narrazione della Sla debba essere un cammino condiviso, proprio come deve esserlo il suo percorso di cura.

Insieme – dal latino insimul o insemel, “nello stesso tempo” – significa costruire l’idea di una unità che non cancella le differenze ma le tiene insieme per raggiungere lo stesso obiettivo. Insieme, non come somma delle parti ma per dare vita a uno spazio comune.
Ed i Centri NeMO sono in fondo questo nuovo spazio comune, nato da una “storia di alleanze”, cioè da una scelta di “legarsi insieme” per prenderci cura di una comunità.
Ho imparato che tutto ciò che possiamo raccontare nasce dall’essere dentro la storia che scegliamo di vivere. Per noi è l’esperienza di chi, toccato dalla malattia, ha trasformato la fragilità in energia.

Ma il NeMO per noi è prima di tutto casa, capace di custodire le storie di chi si affida. Ogni incontro diventa un momento di energia, consapevolezza e responsabilità. Come quello con Marcello, 53 anni, che ho conosciuto tra i corridoi del Centro proprio in occasione del seminario.
In un giorno qualunque, a Marcello è stata comunicata la diagnosi di malattia: “Lei ha la Sla, smetterà di camminare, di parlare, di respirare. Stia tranquillo, però, non succederà ora ma entro tre anni...”. Quelle parole gli sono cadute addosso come un macigno, tanto che nel raccontare quell’esperienza il suo ricordo andava all’immagine della gola secca, al bisogno di un bicchiere d’acqua, all’istinto di aggrapparsi alla vita.
La storia di Marcello rappresenta il senso di ciò che abbiamo costruito in questi anni sui territori e che abbiamo condiviso nel seminario: un percorso che ci obbliga alla responsabilità di proseguire, di dire la verità a chi incontra la malattia utilizzando parole che siano piene di senso. Perché il modo in cui una diagnosi viene comunicata può distruggere la persona o generare quell’energia che permette di affrontare un nuovo viaggio: «Ho avuto una vita eccezionale – mi ha detto poi Marcello –. Ma se non avessi incontrato un luogo come questo, dopo quella diagnosi non avrei saputo immaginare un futuro per me e la mia famiglia».

Ecco, questo è il punto da cui ripartire. Viviamo in un tempo in cui la comunicazione rischia di confondere la libertà con la resa e di raccontare la morte come un successo sulla malattia (l’abbiamo letto in una recente testimonianza). Certo, la morte per me è un passaggio ineludibile, che la fede mi aiuta ad accettare ma che non può diventare la risposta alla sofferenza. Ciò che dobbiamo chiedere alle nostre istituzioni è di metterci nella condizione di vivere fino in fondo, con la dignità e l’assistenza di cui abbiamo bisogno. Solo così una scelta può essere davvero libera.
Nella nostra comunità neuromuscolare solo lo 0,1% delle persone chiede di poter anticipare la fine. La verità è che tutti gli altri chiedono di continuare, di testimoniare, di cambiare insieme il modo di vivere la malattia. Perché curare significa accogliere prima di tutto le esistenze, le anime, le storie.

Di fatto è possibile accettare la diagnosi di una malattia devastante come la Sla, solo avendo la consapevolezza di non essere soli e sapendo di avere al fianco una comunità che permette di dare senso alle parole che fanno male.
Lo stesso principio di cui ha scritto nel suo ultimo libro il professor Carlo Borzaga (Non ho masi smesso di ragionare, edito da ViTrend e Fondazione Don Lorenzo Guetti), che ci ha lasciati a causa della Sla lo scorso anno. Egli ha definito la sussidiarietà come un incontro concreto di collaborazione tra il privato sociale e le istituzioni, dove la mutualità diventa realmente solidarietà.

Se è vero che la malattia e il limite fisico costringono a non cercare scorciatoie, è altrettanto vero che queste esperienze possono essere vissute e accolte se si è messi nelle condizioni di farlo, anche quando il sentire comune è quello di rappresentarle come esperienze da eliminare.
Insieme abbiamo deciso di scommettere sull’uomo, il cui valore non può essere cancellato dalla malattia. Non si tratta di un racconto dettato dal sentimento: è la forza concreta di una comunità che vuole continuare a testimoniare il proprio desiderio di vita.
Segretario Centri Clinici NeMO
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