«Non c’è civiltà nel lasciare morire un malato di Sla»
Il caso di Ada, la 44enne malata di Sla campana che ha ottenuto dalla Asl l’ok alla richiesta di suicidio assistito, ha scosso la comunità italiana di persone affette da Sclerosi laterale amiotrofica. E dopo qualche giorno di confronto prende ora la parola per loro Adele Ferrara, presidente di AiSla Napoli, malata da 16 anni

Adele Ferrara, autrice di questo articolo, ha 52 anni e convive con la Sla dal 2009, da quando aveva appena 36 anni. Attivista per i diritti delle persone con disabilità, è consigliera nazionale di AiSla e presidente della sezione di Napoli, portando la sua esperienza e testimonianza al servizio della comunità Sla.
Quando si parla di Sla e di suicidio medicalmente assistito non si tratta solo di parole: si tratta di quale idea di vita vogliamo difendere nella nostra società. Ogni parola può aprire la strada alla speranza o spalancare la porta alla rinuncia. Chi vive la malattia conosce la fatica, la paura, il dolore. Ma la risposta non può mai essere la morte. Arrendersi non è libertà, è disperazione. E quando la società smette di offrire sostegno, quando lascia sola una persona al punto da farle credere che morire sia la via d’uscita, quella non è libertà: è abbandono.
Avere la Sla significa combattere una lotta impari, ne siamo ben consapevoli, purtroppo! Ognuno affronta la malattia secondo il proprio vissuto, la propria storia, il proprio sistema di valori. Noi di AiSla, da oltre quarant’anni, siamo accanto alle persone con Sla per dimostrare, con i fatti, che la vita vale sempre.

Anche quando tutto sembra perduto, ci può essere ancora dignità, relazione, amore. Lo vediamo ogni giorno nei volti di chi lotta, di chi resiste, di chi, pur nella sofferenza, sceglie di vivere.
Non giudichiamo. Accompagniamo. Offriamo strumenti, ascolto, prossimità, e difendiamo il diritto all’autodeterminazione. Per questo ci preoccupa ogni comunicazione che semplifica, riducendo la complessità della vita e della malattia a un messaggio ideologico. Non c’è civiltà nella morte somministrata; c’è civiltà nel prendersi cura, nell’ascoltare, nel restare accanto a chi soffre. La vera conquista è una società che non scarta chi è fragile, ma si stringe intorno a lui.
Accompagnare non significa dire “sì” alla morte: significa restare, anche quando tutto fa paura. Significa dare strumenti, presenza, sollievo. La libertà non è scegliere di morire: è essere messi nelle condizioni di vivere fino in fondo, con dignità e amore.
Se consideriamo “vincere” come il voler chiedere la morte, allora abbiamo perso tutti: fiducia nella medicina, nella solidarietà, nelle istituzioni e nella vita stessa. Ma se vincere significa continuare a garantire cure, informazione, prossimità, allora quella è la strada giusta.
La vita non è un’ideologia. È responsabilità, legame, un dono fragile ma prezioso. Noi scegliamo di custodirlo. Ogni persona, anche la più ferita o stanca, merita sostegno, non spinta verso la fine. Noi scegliamo la vita, sempre. Con coraggio, rispetto, e la certezza che ogni respiro, anche faticoso, ha un senso. Perché la dignità non è nella morte: è nella vita che continua, nonostante tutto.
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