Il Papa: no a rigidità, ideologia e contrapposizioni su fede, liturgia e morale
di Giacomo Gambassi, Roma
Leone XIV incontra la Curia Romana per gli auguri di Natale. La sua «amarezza» quando nella Chiesa si fanno strada «smania di primeggiare, rancori, azioni per usare le persone, cura dei propri interessi». L’invito alla «comunione» come argine alle divisioni che diventa «segno in un mondo ferito da discordie e guerre»

Capita che, «dietro un’apparente tranquillità, si agitino i fantasmi della divisione». Leone XIV sceglie l’udienza alla Curia Romana in occasione degli auguri di Natale per tornare su un’urgenza che era emersa già nelle Congregazioni generali prima del Conclave e che il Papa ha messo al centro del pontificato: l’unità della comunità ecclesiale. «La comunione nella Chiesa rimane sempre una sfida che ci chiama alla conversione», avverte il Pontefice. Comunione che è argine alla «tentazione di oscillare tra due estremi opposti: uniformare tutto senza valorizzare le differenze o, al contrario, esasperare le diversità e i punti di vista piuttosto che cercare la comunione». Vale «nelle relazioni interpersonali, nelle dinamiche interne agli uffici e ai ruoli» o anche «trattando le tematiche che riguardano la fede, la liturgia, la morale e altro ancora» dove «si rischia di cadere vittime della rigidità o dell’ideologia, con le contrapposizioni che ne conseguono». Da qui l’invito: «Siamo chiamati, anche e soprattutto qui nella Curia, ad essere costruttori della comunione di Cristo, che chiede di prendere forma in una Chiesa sinodale, dove tutti collaborano e cooperano alla medesima missione, ciascuno secondo il proprio carisma e il ruolo ricevuto».
Ed è «missione» l’altra parola-chiave del suo intervento, preceduto dal saluto del cardinale decano, Giovanni Battista Re. Leone XIV la richiama citando papa Francesco, «mio amato predecessore» che «in questo anno ha concluso la sua vita terrena» e che con «la sua voce profetica, il suo stile pastorale e il suo ricco magistero» ha incoraggiato «soprattutto a rimettere al centro la misericordia di Dio, a dare maggiore impulso all’evangelizzazione, ad essere Chiesa lieta e gioiosa, accogliente verso tutti, attenta ai più poveri». Citando l’Evangelii gaudium, esortazione programmatica di Bergoglio, papa Prevost rimarca che «la Chiesa è per sua natura estroversa, rivolta verso il mondo, missionaria» e che occorre «progredire nella trasformazione missionaria della Chiesa, che trova la sua inesauribile forza nel mandato di Cristo Risorto». Quindi torna a chiedere di operare con uno stile sinodale: «Nello spirito della corresponsabilità battesimale, tutti siamo chiamati a partecipare alla missione di Cristo. Anche il lavoro della Curia dev’essere animato da questo spirito e promuovere la sollecitudine pastorale al servizio delle Chiese particolari e dei loro pastori».
Incontrando i dipendenti della Santa Sede, il Papa confida: «Sto imparando a conoscere il Vaticano come un grande mosaico di uffici e di servizi». E alla Curia Romana ripete che è chiamata a essere «sempre più missionaria» in modo che «le istituzioni, gli uffici e le mansioni siano pensati guardando alle grandi sfide ecclesiali, pastorali e sociali di oggi e non solo per garantire l’ordinaria amministrazione». E parla di «amarezza» quando si fanno «strada anche tra di noi», magari «dopo tanti anni spesi al servizio della Curia», alcune «dinamiche legate all’esercizio del potere, alla smania del primeggiare, alla cura dei propri interessi, non stentano a cambiare. E ci si domanda: è possibile essere amici nella Curia Romana?». Un monito chiaro che si fa invito all'amicizia, accompagnato dalla necessità di «poterci fidare, quando cadono maschere e sotterfugi, quando le persone non vengono usate e scavalcate, quando ci si aiuta a vicenda, quando si riconosce a ciascuno il proprio valore e la propria competenza, evitando di generare insoddisfazioni e rancori». Non solo. «Il lavoro della Curia e quello della Chiesa in generale va pensato un questo orizzonte ampio: non siamo piccoli giardinieri intenti a curare il proprio orto, ma siamo discepoli e testimoni del Regno di Dio, chiamati ad essere in Cristo lievito di fraternità universale, tra popoli diversi, religioni diverse, tra le donne e gli uomini di ogni lingua e cultura. E questo avviene se noi per primi viviamo come fratelli». È una trasformazione del cuore e della mente quella che il Papa invoca nella Chiesa, dove anche «le strutture non devono appesantire, rallentare la corsa del Vangelo o impedire il dinamismo dell’evangelizzazione».
Del resto, una Chiesa che vive la comunione e che non cede alla logica della divisione diventa anche «un segno in un mondo ferito da discordie, violenze e conflitti, in cui assistiamo anche a una crescita di aggressività e di rabbia, non di rado strumentalizzate dal mondo digitale come dalla politica», dice il Papa tornando di nuovo a denunciare chi alimenta e sfrutta le paure sociali. «Il Natale del Signore reca con sé il dono della pace – prosegue il Pontefice – e ci invita a essere segno profetico in un contesto umano e culturale troppo frammentato>. Leone XIV cita il Giubileo alle battute finali per ribadire che «solo Lui è la speranza che non viene meno» e indica due «importanti ricorrenze» che hanno coinciso con l’Anno Santo: quella del «Concilio di Nicea che ci riconduce alle radici della nostra fede» e quella del «Concilio Vaticano II, che fissando lo sguardo su Cristo ha consolidato la Chiesa e l’ha sospinta incontro al mondo, in ascolto delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini d’oggi». Nella conclusione il richiamo al teologo tedesco protestante Dietrich Bonhoeffer, ucciso in un lager nazista, che, meditando sul mistero del Natale, scriveva: «Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo. Dio ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto».
Davanti ai lavoratori dello Stato della Città del Vaticano, Leone XIV parla delle statuine che nel presepe raffigurano diversi mestieri: «Il fabbro, l’oste, la locandiera, la lavandaia, l’arrotino, e così via. Naturalmente sono mestieri di una volta. Comunque mantengono il loro significato all’interno del presepe. Ci ricordano che tutte le nostre attività, le nostre occupazioni quotidiane acquistano il loro senso pieno nel disegno di Dio, che ha il suo centro in Gesù Cristo». E il messaggio: «Impariamo dal Natale di Gesù lo stile della semplicità, dell’umiltà e facciamo in modo, tutti insieme, che questo sia sempre più lo stile della Chiesa, in ogni sua espressione».
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