Il cardinale Bustillo: società impaurita e web violento. Ripariamo il vivere civile
di Giacomo Gambassi, Roma
Intervista all’arcivescovo di Ajaccio. «L’Occidente ha emarginato Dio ma è infelice. Siamo dominati dalla paura: il riarmo ne è la prova. I giovani? Hanno sete di spiritualità. A me non chiedono del matrimonio dei preti, ma domandano dell’amore, della morte, del senso della vita»

La denuncia è netta. E le parole inequivocabili. «Si può uccidere con i media. Sui social network si assiste a una decapitazione simbolica dell’altro. Persino la democrazia è minacciata». Il cardinale François-Xavier Bustillo conosce bene il mondo digitale. Perché lo abita: sia affidandosi alla tv, sia attraverso le reti sociali (con un profilo Instagram molto seguito). «Il cardinale più mediatico della Francia», lo ha definito la stampa d’Oltralpe per raccontare la missione “comunicativa” dell’arcivescovo di Ajaccio. Originario dei Paesi Baschi, in Spagna, 57 anni, guida la Chiesa nell’isola del Mediterraneo per volontà di papa Francesco che nel 2023 gli ha consegnato la berretta cardinalizia e che esattamente un anno fa ha compiuto il suo ultimo viaggio apostolico proprio ad Ajaccio.

Un’attenzione alle nuove frontiere degli algoritmi che Bustillo condivide adesso con Leone XIV, il primo Pontefice che ha avuto un profilo social personale e che continua a usare WhatsApp. Ma con Prevost ha molto altro in comune. Entrambi appartenenti a un ordine religioso: il Papa agostiniano; Bustillo frate minore francescano conventuale. Entrambi preoccupati per la polarizzazione della società: «Come si può sopravvivere se c’è frammentazione?», si chiede il porporato. Entrambi convinti che «la paura stia dettando l’agenda del nostro vivere civile e si porti dietro una logica tribale in cui l’obiettivo è proteggersi dall’altro che viene accusato di ogni nefandezza: come dimostra la spinta al riarmo», sottolinea il cardinale. Entrambi persuasi che «in un Occidente diventato pagano c’è una sete spirituale che chiama in causa la Chiesa», afferma Bustillo. Come testimonia il ragazzo di vent’anni che lo ha interrogato all’aeroporto quando lo ha visto con il saio. «In passato - spiega ad Avvenire - i giovani domandavano ai preti o ai consacrati della mia età che cosa ne pensassero del matrimonio dei sacerdoti o dell’ordinazione delle donne. Oggi i ragazzi ti pongono domande esistenziali: sulla vita, sull’amore, sulla morte, sulla sofferenza. Segno che abbiamo davanti generazioni che crescono in una sorta di vuoto e che, quando si accende in loro una tensione positiva, non si accontentano di risposte superficiali o a buon mercato». Una società frantumata e incattivita, quindi da riassettare. O, meglio, da «riparare portando in essa il seme della speranza», dice il cardinale. E lo scrive nel suo libro “Réparation” che in Francia è diventato un caso editoriale e un manifesto della riconciliazione che ha travalicato i confini della Corsica, terra ferita da decenni di rivalità identitarie.
Eminenza, lei denuncia un clima guastato in Occidente. E chiede appunto di ricostruire la vita sociale. Attualizza la lezione di san Francesco?
A Francesco d’Assisi viene ripetuto tre volte: “Va’, ripara la mia casa”. Oggi viviamo in un mondo in cui la sfiducia è diventata la norma. Assistiamo a una violenza sempre più diffusa nelle nostre città. Individualismo, paura, sovrabbondanza tecnologica hanno reciso i legami. Il nostro Occidente, invece di creare connessioni, mette le persone le une contro le altre e le getta nell’arena della competizione perenne.
C’è chi fa salire sul banco degli imputati anche la Rete. Lei che cosa ne pensa?
I social network sono mezzi. E di per sé sono neutri. Dipende come vengono utilizzati. Sul web possiamo salvare o uccidere una persona. Accade ormai che le reti sociali siano un tribunale virtuale. L’anonimato alimenta la durezza e l’intransigenza. Nella Messa diciamo: “Signore, pietà”. Ecco, non c’è più pietà. Molte delle parole che ascoltiamo sono di giudizio e di condanna: giudichiamo tutti e condanniamo tutti, ma non abbiamo né gli elementi né gli argomenti. Parole che creano un’atmosfera ostile, mentre ogni giorno incontriamo tante persone generose, solari e preziose per la società. Alla tentazione di dire “è colpa sua”, occorre rispondere: “Mi assumo la responsabilità, agisco”. E servono parole creatrici che sono l’antidoto a quelle distruttrici e che possono contribuire a disarmare i conflitti su Internet.
Allora che cosa fare?
In mezzo a troppa negatività, il cristiano sa che un mondo migliore è possibile. La parabola dei talenti ci dice che abbiamo tutti un potenziale. Quindi c’è bisogno di unirci, federarci. Non si può delegare soltanto alla politica e all’economia. Ogni donna e ogni uomo deve fare la sua parte.
Fra le paure c’è quella dei migranti.
Il motore dell’agire sociale è spesso la paura. Invece deve essere l’amore. Cristo ci ha insegnato ad amare come lui ci ha amato. Quindi l’altro non è un pericolo, ma un dono. La parabola del Buon Samaritano ci mostra come il nostro prossimo sia nostro fratello. Eppure, la fraternità non è automatica. Tutti la proclamano; però, se non viene incarnata, resta lettera morta. Come cristiani siamo tenuti ad annunciare l’amore con i comportamenti, le parole, la mentalità. Vale anche di fronte al migrante: se diventa una minaccia, significa che non si è compreso il Vangelo.
E i poveri?
Quando Leone XIV, in continuità con il magistero di papa Francesco, chiede nella “Dilexi te” di abbracciare gli ultimi, invita l’umanità a prendersi cura gli uni degli altri. Se lasciamo ai margini i fragili e i deboli, scivoliamo nella barbarie. Del resto il Figlio di Dio è nato povero in una stalla, come ci ricorda il Natale ormai alle porte; ed è morto povero su una croce.
L’Occidente è lontano dal trascendente, ma in Francia si registra un boom di catecumeni. Come lo spiega?
«Dio è morto», sosteneva Nietzsche. E nel periodo della contestazione, intorno al 1968, si diceva: «Né Dio, né padroni». Dopo oltre sessant’anni e dopo aver ghettizzato Dio, ci possiamo domandare: siamo migliori? Siamo più felici? Siamo più uniti? Negli aeroporti o nelle stazioni della Francia noto tantissimi libri che pretendono di svelare i segreti della felicità o della gioia. Questo vuol dire che l’uomo contemporaneo non è soddisfatto. Pensiamo, poi, all’aumento dei casi di depressione che indicano come la modernità non sia sinonimo di felicità. Ecco perché è urgente prendersi cura dell’altro. Nella notte di Pasqua ho battezzato nella Cattedrale di Ajaccio 78 adulti: in realtà, tutti dai 20 ai 30 anni. Dopo lo scandalo degli abusi, pensavamo che la Chiesa fosse finita in un tunnel. Invece lo Spirito opera. I giovani bussano alle porte delle parrocchie e cercano un senso alla loro vita, un’identità, un’appartenenza.
Leone XIV ha detto che la fede non può ridursi a fatto privato. Un monito di fronte a un laicismo che vuole escludere il fattore religioso?
Il cristiano annuncia la sua sequela di Cristo con azioni positive e costruttive. Ecco perché deve contribuire alla vita sociale e al bene comune. Non può limitarsi alla critica, come fanno gli altri. San Francesco lo ha mostrato: con una vita nel segno della riconciliazione. Le difficoltà che si sperimentano nelle nostre società sono una sfida alla fede: è necessario rispondere senza arroganza, ma anche senza complessi di inferiorità.
Sei mesi di pontificato di Leone XIV. Come riassumerli?
Vedo il Papa vivere il suo ministero con semplicità. È un uomo discreto, ma sa dove condurre la barca di Pietro. E sulla scena geopolitica internazionale ha dimostrato un’indiscussa leadership. È un Papa che agisce alimentando la speranza e senza paure.
C’è bisogno di maggiore unità nella Chiesa?
Sempre. Oggi essere divisi significa non avere la maturità umana, spirituale e morale di vivere la fede. Il rischio è passare dalle legittime differenze alla divisione, dal connaturale all’ideologia. Se osserviamo con diligenza, molte delle frizioni riguardano questioni di forma, non di sostanza. Il richiamo di Leone XIV all’unità non è argomento tecnico o tattico, ma urgenza di vivere insieme la stessa fede.
La pace è una delle dimensioni che stanno a cuore alla Chiesa ed è al centro del magistero di Leone XIV.
La Chiesa non ha un potere politico o militare, ma ha il dovere di annunciare la pace. Certo, bisogna cominciare da noi stessi, dalle nostre famiglie, dai nostri quartieri. Il Vangelo ci ripete che tutto inizia dal cuore. Ci scandalizziamo per la guerra fra la Russia e l’Ucraina ma poi siamo in lotta con i vicini. Serve coerenza. L’appello per la pace che parte dalla Chiesa non è solo per i potenti del mondo, ma per ciascuno di noi.
Il Papa ha appena puntato l'indice contro un’escalation delle spese militari.
È frutto di un approccio primitivo. Come evidenzia il Giubileo della speranza, dobbiamo credere che vivere in pace è possibile. E senza pace, non c’è futuro. Se ne siamo convinti, faremo nuove tutte le cose, ci incoraggia la Scrittura.
Con il Pontefice lei condivide anche la passione per il tennis e il tifo per Sinner.
Il tennis ha una pedagogia interessante. È vero che ciascun giocatore attacca il “territorio” dell’avversario e difende il proprio, ma sempre nel rispetto dell’altro. Lo sport educa. E poi Sinner è un giovane capace di trasmettere solidità, semplicità e impegno: valori che fanno bene alle nostre società fragili.
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