domenica 10 giugno 2018
E chi l'ha detto che non si può viaggiare nel tempo? Anzi, volendo, si possono fare due cose insieme. Nello stesso istante. Andare nel passato e poi fare un salto nel futuro. E sempre restando saldamente seduti nel presente. Per constatare che tra ieri e domani, molto spesso e purtroppo, poco o nulla cambia.
Non c'è bisogno della fantascienza, neppure dobbiamo costruire la "macchina del tempo". Basta rivolgersi a un archivio storico. Oggi abbiamo anche Internet. Oppure alla propria memoria, ed il gioco è fatto. Qualcuno obietterà: e per il futuro? Semplice, se nel presente tutto è rimasto tale e quale al passato, è probabile che sarà così anche per il futuro.
Era di questa stagione, dieci anni fa. In un angolo della città calabrese di Rosarno, si spalancava una luogo di pena e di tormento chiamato "La collina". I resti murari di una fabbrica abbandonata, trasformata in ghetto dove, al riparo di cartoni, plastica e bancali di legno, i lavoratori stagionali, gli "uomini-spazzatura", si erano costruiti le loro casette-rifugio. In realtà, tane, assediate da immondizia e abbandono. Le stesse cose le avevo viste in Sicilia, dalle parti di Cassibile e Pachino, dove c'erano persone che vivevano proprio sotto le fronde degli alberi, con i panni lavati appesi ai rami a mo' di stenditoio a cielo aperto. Anche in Puglia, nella Capitanata, tra gli schiavi della raccolta degli ortaggi costretti a bere l'acqua per le irrigazioni e a mangiare pane secco. Contro queste condizioni di vita inumana, senza contare la situazione ancor più debole delle donne, molte dedite alla prostituzione, contro queste condizioni spaventose di vita, ci sono state rivolte violente per chiedere più rispetto e dignità. Ma gli sfruttati e la loro vita da ghetto sono ancora la. Tendopoli e baracche di stracci e lamiera da ultimo mondo.
Non abbiamo bisogno di costruire una macchina che viaggi nel tempo. Semmai c'è più bisogno di dare dignità a queste persone, gli stagionali. E legalità al loro lavoro, per liberarlo anche da uno scandalo italiano. La schiavitù del caporalato. Quel sistema di reclutamento criminale delle persone che, come un parassita, vive annidandosi nella pelle degli altri. Sarebbe ora di farla finita con i tanti ghetti d'Italia, dove vivono i dannati della terra, sfruttati e sottopagati, e dove non c'è solo fatica, ma anche morte. Morire di fatica per le troppe ore trascorse con la schiena curva, le mani che raccolgono frutta, verdure e ortaggi fino a farsi male. Sotto il sole che frusta la schiena, toglie il fiato e spacca il cuore a metà per la fatica e nemmeno un goccio d'acqua fresca.
Poi a fine giornata, sperare in un riposo ristoratore nella provvisorietà di case indegne di questo nome. Spesso vecchi rustici abbandonati, diroccati e sperduti in mezzo alla campagna. Senza acqua corrente, senza elettricità e per gabinetto un angolo di cielo. E di notte, la compagnia dei topi che rosicchiano gli avanzi del cibo e quei quattro stracci che si posseggono. Vite costrette tra l'ombra e l'invisibile, sono quelle degli stagionali. Vite da formiche, con le mani ferite dalle vesciche, che sbucano dalle loro tane di fortuna, prima ancora che abbia fatto giorno. E accade sempre sotto gli occhi di tutti noi. Manodopera che pur di mangiare si adatta a qualsiasi sacrificio, facile da dominare e da sfruttare. Il caporale sarà sempre chiamato "capo". Mentre loro saranno sempre segnati da un tono perentorio con il richiamo freddo e imperativo del caporale: "Ehi tu, vieni qua".
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