martedì 18 novembre 2014
Umberto Veronesi: conosciuto e stimato. 30 anni orsono per “Mixer” di Rai2 preparai i testi per Giovanni Minoli che lo intervistò: forse la sua prima uscita presso il grande pubblico. Ieri su “Repubblica” (“R2 Cultura”) il suo racconto a tutta p. 39: «Il giorno in cui ho smesso di credere in Dio». Esposizione autobiografica della perdita della fede: ricordi di infanzia religiosa a contatto con un bravissimo prete, poi messi alla prova da anni di guerra e violenze, e soprattutto da un concretissimo fantasma reale, lo scontro continuo con il tumore che uccide indiscriminatamente, suo vero «diavolo» (cioè 'avversario') quasi personale… Pagina forte e anche bella, che conferma motivi di stima e apprezzamento, ma costruita con l'intento chiaro di presentare la negazione di Dio come conseguenza logica dell'esperienza di vita: proselitismo personale ovviamente legittimo. In conclusione egli si chiede se nella rivelazione, e parla proprio della Bibbia, ci «sono verità… che possono lenire il dolore» come per esempio quello «dei genitori di un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano» e risponde così: «Credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del “non so”». Che dire? Che si capisce bene il tutto, salvo questa finale professione di «silenzio» o di «sussurro». Dopo un'intera pagina chiarissima e fortemente motivata a senso unico si può dire di aver scelto il «silenzio» o di confessare un «non so»? Tutti hanno diritto di cercare “proseliti”, e di farlo anche con le parole, ma credo che tanti uomini, anche uomini di scienza e cultura come Veronesi potrebbero dire per esperienza ripetuta e personale che certe “parole” e proprio di quella fede ebraico-cristiana cui egli allude, fondano almeno speranze, o addirittura certezze di «verità che possono lenire» il dolore dell'umanità.
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