domenica 21 maggio 2017
Tira una brutta aria di decadenza sul giornalismo. Per "catturare" il lettore, la tecnica professionale suggerisce l'uso di titoli attraenti: è giusto e logico. il manifesto, per esempio, quotidiano che non attira certo la simpatia di chi scrive, è celebre – bisogna riconoscerlo – per la capacità di ideare, con intelligenza ed efficacia e senza offendere il buon gusto, titoli gustosi e validi.
Invece Libero si sente "libero" di adoperare forzature di termini tipici, per esempio, del linguaggio ecclesiale, oppure accostamenti di parole, sensi ambigui e giochi di significati. Se ne parla qui perché uno stile volgare che oltrepassa i confini del buon gusto e del rispetto del lettore è anche un'offesa alla professione. Si fa presto, infatti, ad addebitare la volgarità di un quotidiano a tutta la categoria.
Era accaduto venerdì 10 febbraio, quando, per ironizzare su una ministra, quel giornale usò un paio di parole che di per sé erano innocenti, ma che nell'atmosfera della prima pagina evocavano altri offensivi significati. Il fatto suscitò molto chiasso e quel Direttore cercò, senza riuscirvi, di dimostrare che l'equivoco su quel concetto (che qui non riportiamo per l'ovvio rispetto dovuto ai lettori e a noi stessi giornalisti) stava tutto in quelli che lo lamentavano.
Un identico, anzi, un più esplicito gioco di parole e di significato più pesante è apparso lunedì scorso con un grande titolo in cui il doppio senso (quello letterale e quello molto usato nel parlato volgare a sfondo sessuale) era ancora più evidente. Anzi: una replica che era un documento di autoaccusa. Non si capisce perché questa volta, in una delle ben due repliche di martedì 16, Libero, oltre a fare il martire della libertà di stampa («Il Consiglio di disciplina lombardo dell'Ordine dei giornalisti lo ha censurato») racconta che «ieri mattina», cioè lunedì 15, «un topo è venuto a morire proprio davanti alla redazione romana di Libero. La carcassa della pantegana è rimasta lì per ore. Poi forse un gabbiano ci ha pensato». Rispetto per i colleghi, pena per chi li guida nei bassifondi dell'informazione.

I NOMI IN "ISMO"
Il Fatto Quotidiano nega (giovedì 18) che il calo delle nascite «possa essere il risultato di una pianificazione». È piuttosto, «in un mondo di cambiamenti tecnologici continui e radicali, l'effetto degli sbalzi di temperatura: qualche grado in meno, qualche grado in più» e ritiene che il suggerimento di «impegnarsi a procreare» sia una «distorsione logica» simile al lamento di tanti convegni che studiano il fatto «che i pensionati non muoiono, almeno nel numero giusto». Forse una risposta ai convegni e alla «logica distorta» si trova nella pianificazione dell'industria farmaceutica e nella sua pressione che spinge a un crescente consumo di anticoncezionali e un modo di vivere povero nella dedizione ai figli e ricco di quell'edonismo di cui anche l'aborto è un frutto. (Tra parentesi: i nomi che finiscono in "ismo" hanno spesso un valore negativo).
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