mercoledì 13 maggio 2009
Un po' fuori stagione il titolo del nuovo romanzo di Ida Boni, Quel freddissimo inverno (Egon, pp. 144, euro 13), adesso che finalmente sembra prender corpo una primavera che preluda all'estate, ma è un bel titolo, non meteorologico, per un'intensa meditazione sul tempo di cui è intrisa la nostra anima, e non solo l'anima, ma anche il nostro corpo e i luoghi e gli oggetti che si sono trasformati in ricordi.
La prima parte è il resoconto di un lungo e dolente contenzioso giudiziario per la divisione di un asse ereditario fra una decina di litigiosi parenti: oggetto del contendere, una casa, la grande casa nel piccolo paese sul Lago di Ledro, dove avevano passato le vacanze le famiglie di due sorelle, con i loro figli, parenti e personale di servizio, e dove avevano trascorso l'inverno del '44, appunto quel "freddissimo inverno", incancellabile nella memoria. Sono i luoghi del primo romanzo di Ida Boni, Modo lidio, a cui seguiranno Senza lasciare traccia, Tre donne, Ma è tardi, sempre più tardi.
A raccontare è una donna matura, che nel prosieguo sapremo chiamarsi Vera, la quale tenta con ogni mezzo di non disperdere la dimora e gli oggetti di famiglia - mobili, quadri, specchi - che invece lasciano del tutto indifferenti gli altri coeredi, interessati solo a ricavare il massimo da quel, tutto sommato, magro affare. Particolarmente accanito è l'Avvoltoio, con l'Aragosta sua moglie, che pur non avendo bisogno di quei pochi milioni, sembra animato dalla schietta volontà di nuocere, di ferire Vera nel suoi sentimenti, nel suo modo di ricordare. La casa, comunque, verrà venduta, sarà ristrutturata, suddivisa in appartamenti, anche lo scalone sarà demolito, e Vera dovrà accontentarsi di una modernissima mansarda, certamente comoda, ma così diversa dalla vita che un tempo pulsava nella grande magione. Dalle finestre, però, Vera può ancora contemplare dall'alto i tetti del villaggio, i boschi, il fianco del monte e, laggiù in fondo, lo specchio verde e turchese del piccolo lago.
La seconda e più ampia parte è il racconto di quel fatidico inverno, dei giochi di Vera ragazza con i coetanei e con i cugini, le chiacchiere di paese in quel periodo sospeso fra l'8 settembre e la fine della guerra, in cui l'eco dei grandi eventi della storia giunge smorzato fin lassù, anche se il papà è soldato e Vera non sa come rispondere alle pur rare lettere che giungono dal fronte. Il ricordo è legato alla neve, alle variazioni di luce delle stagioni, alle notti di insonnia, agli alberi e al profumo dei boschi, ai piccoli gesti quotidiani a cui la lontananza conferisce un alone quasi d'epica. E di tutto questo, di loro (e di noi) bambini e adolescenti, di quella casa, di quel tavolo su cui si scrivevano i compiti (e Cino così svogliato, pungolato dalla mamma con il lavoro di cucito al suo fianco), di quel lume e di quel divano a fiori, che cosa rimane? Rimane Vera (e noi con lei) che non smette di ricordare, di conversare con tutti quegli oggetti «che appartennero», come ha scritto un poeta reticente.
E definitivamente fissata sulla pagina resta l'età irripetibile della prima adolescenza, quando si scopre il proprio corpo e il proprio essere, la possibilità di sintonia con il cosmo, con l'infinito di un cielo che forse è davvero l'infinito: «L'unico elemento di certezza, tra tante ricorrenti incertezze, rimaneva allora il ricordo di quel lungo freddissimo e lontano inverno, di quell'estate breve e in se stessa fugace e di quel commiato, dal lago, dalla valle - come un rito di passaggio - di quei mesi per lei decisivi in cui aveva infine preso coscienza di sé e del proprio corpo, forse anche del fatto che non può esserci effettiva crescita senza distacchi e senza dolore».
Ecco, finalmente, un libro senza plot e quasi senza trama, fatto di emozioni, di sentimenti, di pensieri. Un libro da cui non potrà mai essere tratto un film. È la letteratura, bellezza.
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