giovedì 10 novembre 2022
Tutti riteniamo di sapere cosa sia la morte, e in genere siamo in grado di riconoscerla se è riferita a una pianta, un animale, una persona umana. Ma in questa gerarchia vanno riconosciute la crescente complessità e le difficoltà di definire la morte, specialmente di fronte agli sviluppi della medicina e del suo potere di intervento sull’essere umano, che sfumano il confine tra vita e morte. In effetti, negli ultimi decenni è stato necessario un costante dialogo tra medicina (nelle sue varie specialità), filosofia, teologia e diritto, per precisare il momento della morte di una persona e avere criteri precisi e condivisi per l’accertamento di essa. In Italia, con la legge 578 del 29/12/1993, si è affermato che «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo». Vi è, quindi, un’unica definizione di morte, come conseguenza dell’arresto cardio-respiratorio protratto per almeno 20 minuti (e ciò comporta la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo); o in seguito a lesioni encefaliche (cervello, cervelletto e tronco), in pazienti sottoposti a rianimazione, che andranno valutati da un apposito collegio medico, secondo criteri di accertamento della morte definiti nel decreto ministeriale 582 del 22 agosto 1994 (aggiornato l’11 aprile 2008). Anche la Chiesa cattolica condivide tali conclusioni medico-scientifiche e il loro significato antropologico, ricordando che «esiste una sola morte della persona, consistente nella totale disintegrazione di quel complesso unitario e integrato che la persona in sé stessa è, come conseguenza della separazione del principio vitale, o anima, della persona dalla sua corporeità... La cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefa lica, se applicata scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica» (Giovanni Paolo II, 30 agosto 2000). La cessazione di tutte le funzioni encefaliche determina la perdita dell’unità del corpo umano come tale, ossia dell’organismo integrato e coordinato, vivente. Tutto ciò non va confuso con il cosiddetto “stato vegetativo”, ossia lo stato clinico conseguente a un gravissimo danno prevalentemente degli emisferi cerebrali, che tende a diventare irreversibile (permanente), per cui rimangono le funzioni “vegetative” dell’organismo umano (respiro, termoregolazione, riflessi del tronco), in assenza permanente delle capacità comunicative e relazionali. La persona è viva, in una particolare e quasi indecifrabile condizione, con tutti gli interrogativi e le responsabilità per garantirle assistenza e cure, evitando forme di accanimento o di eutanasia. Emergono sempre nuove questioni di rilevanza bioetica che chiedono un approccio interdisciplinare per trovare criteri e indicazioni operative, al fine di raggiungere la sicurezza della diagnosi di morte. Rinviando, comunque, al senso del “mistero” che non è risolvibile solo sul piano bio-fisico, e interpella, inquieta, costringe a confrontarsi con il limite dell’esistenza terrena; e oltre a essa. Cancelliere Pontificia Accademia per la Vita © riproduzione riservata
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