martedì 13 luglio 2021
Non fermarti, provaci. Anche se sembra che una tigre ti abbia morso la coscia, anche se il muscolo si è strappato come una busta di plastica troppo piena. «Non devi farlo per forza Derek», gli dice papà. «Devo farlo, devo arrivare in fondo», gli risponde lui. «Allora mettimi un braccio sopra le spalle, lo faremo insieme…».
È il 3 agosto del 1992, fa un caldo africano a Barcellona quando parte la semifinale di 400 metri piani. Derek Redmond è britannico, favorito, felice. Parte forte, la prima curva in pista è una pennellata, il rettilineo di fronte è pieno di sole. Poi arriva la tigre: un morso improvviso, il bicipite femorale che si sfalda, un dolore immenso. Derek crolla, non è un animale che lo ha azzannato, ma il destino. Si rialza: il traguardo è lontano, la gara conclusa, gli avversari già sotto la doccia. Ma è un'Olimpiade, cavolo. Non può finire così. E allora forza: saltella su un piede solo, il sinistro, ricaccia indietro le lacrime, quello che conta è dall'altra parte della pista ma lui deve arrivarci. La gente sugli spalti prima ammutolisce, poi applaude come si può applaudire solo chi soffre davvero e non si arrende. Dalla tribuna scende un uomo, entra in pista, la vigilanza non riesce a fermarlo. Ha un cappellino in testa con la scritta “Just do it”, fallo e basta. Si chiama Jim, è suo padre. Lo abbraccia, gli parla, capisce che non si fermerà. Allora lo aiuta ad arrivare in fondo. Padre e figlio tagliano il traguardo insieme, abbracciati, stravolti dalla commozione di uno stadio. Ultimi e primi, senza un perché diverso dalla voglia di dimostrare che un vincente è un uomo che non è capace di arrendersi.
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