“The tribe”, quando la violenza è sorda
martedì 2 ottobre 2018
Proporre un film recitato con il linguaggio dei segni, alla vigilia della Giornata mondiale del sordo che si celebra l'ultima domenica di settembre, può essere un'iniziativa lodevole per un'emittente televisiva. Ma se la pellicola è particolarmente dura e cruda si possono avanzare perplessità. Il film è The tribe, del regista ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, vincitore del Grand prix della Semaine de la critique a Cannes nel 2014. L'emittente è Sky Arte che lo ha mandato in onda in prima visione tv sabato scorso alle 22.45 con l'avvertenza di un divieto (almeno così si diceva una volta) ai minori di 14 anni e che «Questo film è nella lingua dei segni. Senza traduzioni, senza sottotitoli e senza voice-over (voce fuoricampo)». La storia è quella di Sergej, un adolescente sordo, che arriva in un collegio per ragazzi affetti dallo stesso problema. In questo nuovo contesto dovrà lottare per conquistare il proprio spazio all'interno di una banda di giovani criminali che, fra violenze e prostituzione, regola la vita dell'istituto. Coinvolto in una serie di furti, Sergej si guadagnerà presto la fiducia dei compagni. Ma l'affetto per la giovane prostituta Anya lo porterà a infrangere pericolosamente tutte le regole del branco. Dunque una storia di amore e iniziazione, di passaggio alla vita adulta in un mondo crudele, con giovani capaci di odio, furia, rabbia, disperazione. Sentimenti che non hanno bisogno di parole. Dopo un disagio iniziale, infatti, ci si abitua al linguaggio dei segni e alla gestualità, a volte esasperata, di questi giovani attori sordi non professionisti. Gli spettatori udenti hanno comunque il vantaggio (e non è poco) dei rumori. Non è pertanto un film sui non udenti, non è muto e non vuol far provare ai telespettatori quello che realmente prova un sordo. In questo ha poco a che vedere con la Giornata di cui si è detto. Gli aspetti interessanti di questo film controverso, violento, con imagini di sesso esplicite e aborti clandestini stanno nel rifiuto della parola e nella tecnica di ripresa. Non si compiace delle situazioni perché non usa inquadrature ravvicinate, non sfrutta i primi piani, limita i movimenti di macchina rendendo tutto molto realistico attraverso una sorta di occhio neutro. Perfino il finale può essere scelto. Il regista ne propone due, contrapposti.
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