giovedì 14 marzo 2019
Piccole escursioni su temi grandi. Su “Repubblica” (12/3, p. 28) Michele Serra è indignato con l'uso spregiudicato che Donald Trump e qualche imitatore nostrano fanno di ciò che lui chiama «il sacro». Credo abbia qualche ragione se Trump «autografa Bibbie in Alabama come un battitore che firma palline da baseball (e) non fa pensare alla religione, ma al marketing politico nella sua forma più miserabile». Puoi condividere, ma poi leggi: «...e i fedeli (suoi e di Dio) non solo non hanno trovato niente da ridire, non solo non gli hanno detto “guardi che non si fa, guardi che quella sarebbe la parola di Dio”, ma parevano estasiati». Con seguito satirico: «A un non credente come me quel gesto non può apparire blasfemo, ma scostumato sì, e irrispettoso di un simbolo (un libro, quel libro)». Che dire? Quel “e di Dio” aggiunto a “suoi”, per indicare gli entusiasti di Trump, è una vera scivolata. Chi non serve Dio nel prossimo, e usa la Parola di Dio non per servire il prossimo, ma per servirsi di Dio è un usurpatore del nome di Dio peggiore dell'ateo più lontano dalla conoscenza vera di Dio e della sua Parola e anche del valore del prossimo. Indignarsi talora è giusto, ma senza confondere i piani. Esibire Dio come compagno di avventure di potere – dal “Dio è con noi” di certe Crociate delle quali poi si è anche chiesto perdono nel grande Giubileo del 2000, arrivando persino al “Gott mit Uns” anticristiano del nazismo – è la bestemmia vissuta più autentica e spregiudicata. E al rovescio vale anche per coloro che in nome della loro negazione di Dio hanno calpestato e calpestano ancora milioni di credenti senza potere e senza difesa. Vale anche (“Repubblica-Robinson”, 12/3, p. 26) per Luca Crinò che tra fiction e ricostruzione lancia un romanzetto sull'attentato del 1981 a Giovanni Paolo II con questo titolo sfottente: “La verità su Wojtyla? Amen”. Vecchi scarponi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI