martedì 27 settembre 2016
Fossi in Luciano Spalletti darei le dimissioni. E non per vedere l'effetto che fa, come qualcuno suggerisce. Le darei davvero, anche rinunciando a un pacco di quattrini: prima perché non credo che ne soffrirebbe più che tanto, visto che la campagna di Russia gli ha fruttato un bel gruzzolo; eppoi, se volesse giusto rimpinguarsi e divertirsi, credo che la signora Ilary Totti dopo averlo fustigato e offeso («Spalletti è un piccolo uomo», ha dichiarato alla Gazzetta dello Sport, ma il marito ha corretto il tiro: «Con Spalletti sintonia totale, grande stima ndr) non gli negherebbe un posto al Grande Fratello Vip. Grandi ascolti garantiti, Fininvest gratificata più che da una partita di Champions. E la Roma? Come ai tempi dell'autarchia (mille anni fa, io c'ero) lancerei lo slogan: «E la Roma fa da se». Perché è inutile servirsi di bravi allenatori se la squadra la possono fare i giocatori. O i dirigenti. Capello se ne andò non perché incantato dalla sirena juventina ma perché un giorno in Campidoglio - e c'ero pure lì - il buon Sensi dichiarò: «Possiamo fare a meno di Capello» (che aveva già vinto lo scudetto e aveva chiesto di acquistargli Buffon e Ibrahimovic quando costavano poco più di Panzerotti e Costoletti). Lo stesso Spalletti - brutto carattere fin che vi pare, permaloso e spiritato, non ilare e pungente come il concittadino Giovanni Boccaccio (natali di Certaldo) - se ne andò quando non fu più accettato dai Senatori De Rossi e Totti. Fu poi la volta di Luis Enrique, mortificato dalla romanità diffusa e scoperto prezioso solo dopo il trasferimento glorioso al Barcellona; e così finì Rudi Garcia, prima osannato eppoi silurato quando penso' di aver fatto la Breccia di Porta Trigoria e invece fu ancora trattato da straniero infiltrato. Ho appena salutato i bei quarant'anni di Francesco - e da qui gli rinnovo gli auguri - e tuttavia penso che quel motto «e la Roma fa da sé» dovrebbe convincerlo ad assumere responsabilità più importanti, a darsi un futuro più “romanista” di un rinnovo contrattuale anno per anno. Non esagero: solo la sua personalità, la sua storia, la sua passione e fedeltà e ricchezza e autorevolezza potrebbero garantire una svolta nell'ormai antica Questione Romana, una situazione che richiama alla memoria un vecchio detto, adattato alla bisogna: «Governare i calciatori della Roma non è difficile, è inutile». Per dar valore alla mia richiesta di dimissioni di Spalletti nelle stesse ore in cui la Capitale si appresta a celebrare i quarant'anni (e 250 gol) del Capitano, non farei ricorso alla (infelice) battuta del sor Luciano sulle «menti deboli», destinata a interpretazioni capziose, ma ad altre parole pronunciate a fine partita durante il ridicolo pellegrinaggio da una stazione televisiva all'altra. Prima ha citato le storiche difficoltà incontrate nella Roma anche dai suoi predecessori, poi ha fatto riferimento al «sostegno di una piazza così importante» che dura finché la squadra non trova qualcuno più bravo cui soccombe, e infine «se un allenatore non riesce a tenere un livello di guardia importante per questo vizio è il primo responsabile e soprattutto in questa direzione andrà ad essere scelto per lavorare nel futuro». Ipse dixit. Avanti un altro.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI