Social, perdiamo tutti se un giornale se ne va
venerdì 20 novembre 2020

Il problema è cruciale. Parliamo della decisione del Giornale di Brescia di non aggiornare più il suo profilo Facebook. Il motivo l'ha spiegato il direttore del quotidiano, Nunzia Vallini. È una reazione «ai troppi insulti e al troppo astio presenti su Facebook. Ai troppi profili fake (falsi) che si dilettano in manipolazioni neppure tanto dissimulate». Parole importanti. Che, in queste ore, hanno già aperto un dibattito nel mondo dell'editoria e non solo lì.
La questione, però, è molto complessa. La domanda di fondo a prima vista sembra essere: perché un giornale dovrebbe restare sui social visto che sono così «inquinati»? Ma la vera domanda è un'altra: perché un giornale ha (aveva) deciso di stare sui social? E cioè: cosa si aspettava? Cosa sperava di ottenere da questo tipo di piattaforme? Domande non da poco visto che, ancora oggi, troppi nell'editoria pensano ai social solo come a strumenti per amplificare la visibilità dei propri articoli e non a «luoghi» di relazione dove costruire delle comunità.
Non è un caso che – a quanto ci risulta – in Italia solo tre testate d'informazione abbiamo stilato delle chiare regole «di galateo» per le proprie pagine social. La prima è stata La Stampa, la seconda Avvenire, la terza Vatican News. E tutte le altre? I motivi di questa diffusa latitanza sono anzitutto due. Il primo è che si fa una fatica enorme a far rispettare delle regole alle proprie comunità social, visto che ogni giorno arrivano migliaia di commenti. Il secondo è che l'algoritmo di Facebook premia i contenuti più discussi. Quindi se una pagina applica delle regole che limitano insulti e risse sotto i suoi post, finisce anche per limitarne in parte il successo dei contenuti.
Già, ma come si difende l'identità di un giornale sui social? Molti sono convinti sia impossibile e che sia venuto il momento di uscirne, senza se e senza ma. Ma così facendo il giornale che lascia perde l'occasione di raggiungere una platea ben più vasta di quella dei propri lettori fedeli. La maggior parte di chi legge articoli sui social appartiene infatti a quella che viene definita «maggioranza silente». Sono quelle (tante) persone che non lasciano traccia di sé – non mettono mai «mi piace», non commentano né condividono i post – ma leggono. E tanto.
Anche la pagina Facebook di Avvenire, a volte, viene attaccata da bot, profili falsi e odiatori di professione. Molto di più di quello che si vede, visto che noi abbiamo adottato (altra cosa che fanno pochissimi giornali sui social) una serie di filtri che fermano la maggior parte delle volgarità. È quindi un problema che conosciamo bene. E sappiamo che non bastano certo queste poche righe per risolverlo. Sappiamo però che ogni spazio digitale lasciato da una voce di valore non resta vuoto ma viene occupato da un'altra voce, che non è detto abbia lo stesso valore e la stessa serietà.
Sappiamo anche che questa situazione è una autentica sconfitta per Facebook, perché dimostra che il social più grande del mondo non sa tutelare e promuovere a dovere le testate serie di informazione. Pochi lo sanno, ma oggi se un giornale fa un post sui social raggiunge gratis mediamente meno del 10% di quanti hanno messo mi piace alla sua pagina. Quindi, per farsi «vedere» deve pagare Facebook. Oppure, deve «provocare» i suoi lettori digitali per «farli reagire», così da aumentare la visibilità dei suoi post.
Possibile che Facebook (ma vale per tutti i social) non possa, non riesca e non voglia fare di più per promuovere l'informazione di qualità sulla sua piattaforma? La questione rimane complessa. Ma il punto di partenza è semplice: ogni volta che un giornale importante abbandona una piattaforma social non c'è un vincitore ma è una sconfitta per tutti. Lettori compresi.

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