mercoledì 11 maggio 2011
Da quando il Dictionnaire des idées reçues di Gustave Flaubert uscì nel 1911, in allegato all'incompiuto Bouvard et Pécuchet (l'autore era morto trent'anni prima), non si è smesso di riflettere e di ridere per non piangere sui luoghi comuni che, con l'estensione del villaggio globale della comunicazione, ci assediano da ogni lato. Stefano Bartezzaghi, enigmista e linguista principe, ha pubblicato Non se ne può più. Il libro dei tormentoni (Mondadori, pp. 264, euro 17), scanzonato e praticamente completo repertorio dei luoghi comuni che continuamente abbiamo sotto gli occhi e negli orecchi. È, in un certo senso, un lavoro di équipe, perché Bartezzaghi si è fatto aiutare dagli acuti lettori dei suoi libri e dai pazienti cultori della sua rubrica su Repubblica, che, a quanto pare, sono segugi olfattivamente dotatissimi per stanare i solecismi ovunque si annidino. «Tormentone»: da dove deriva la parola? Nel gergo teatrale è una battuta o un personaggio che ricorre ossessivamente, e dagli anni '60 è applicato soprattutto alle canzonette estive che assordano le spiagge (1960: Mina con Tintarella di luna; 1963, Abbronzatissima, di Edoardo Vianello; 1967, Stasera mi butto, di Rocky Roberts, fino al Waka Waka di Shakira l'anno scorso). Nel 1988 Vezio Melegari così presentava il suo Manuale del tormentone, pubblicato da Mondadori: «C'è chi chiama tormentone la larva del maggiolino, perché si sviluppa nel terreno tormentando le radici più tenere. Ciò che ha fornito lo spunto per questo libro sono il gioco di parole, la frase fatta, il modo di dire, la locuzione divertente che la pubblicità e il varietà radiofonico e televisivo hanno prepotentemente messo di moda in questi ultimi anni». Parole che ben si attagliano al lavoro di Bartezzaghi, il quale tenta anche classificazioni e attribuzioni dei luoghi comuni. Quanto al titolo, Bartezzaghi sostiene che dal dire Non se ne può più «emerge la radice più profonda, l'identità intima del tormentone, che è appunto quella legata al tormento, al patimento, all'insopportazione. La storia è la scienza dell'infelicità degli uomini, sentenziò il grande tormentonologo Raymond Queneau; e poi, il linguaggio ha avuto origine dai gemiti del dolore, dai lamenti della sofferenza. Ma a quel punto l'espressione di tormento diviene a sua volta un tormentone, e si incomincia a non poterne più di quelli che dicono "non se ne può più"». Questa spiegazione è contenuta nel capitolo il cui titolo figura anche in epigrafe del libro, sempre a proposito di tormentoni: «Deprecarli è vano, classificarli è improbo, ignorarli è impossibile». Personalmente, trovo supremamente irritanti i seguenti tormentoni: «ciao-ciao-ciao-ciao», formula di congedo telefonico in tonalità decrescente; «e quant'altro», per far credere di saperla più lunga; «senza se e senza ma», gergo veterosindacale obsoleto; «ma anche», espressione del cerchiobottismo attribuita all'onorevole Veltroni; «distante anni luce», misura spaziale erroneamente usata come indicazione temporale; «nell'occhio del ciclone», per designare il massimo del caos pericoloso, mentre l'occhio (il centro) del ciclone è il luogo perfettamente calmo mentre tutto intorno turbina; «di tutto di più», abuso di un fortunato spot della Rai; «in buona sostanza», locuzione da salumieri (con rispetto per i salumieri quando non si impalcano a linguisti); «a 360 gradi», per dare idea di una svolta o conversione clamorosa, mentre un giro di 360 gradi riporta esattamente al punto di partenza; i puntini di sospensione, scritti (così:... ) oppure orali (ammiccamento). La conclusione, comunque, è tutta di Bartezzaghi: «Se le armi del tormentone sono la ripetizione e l'ipnosi allora potremmo provare a stare svegli, e variare».
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