mercoledì 6 maggio 2020
L’ispiera è il raggio di sole che, penetrando da una fessura in un ambiente in ombra, illumina la polvere e si rende ben visibile nella semioscurità. Le edizioni Dehoniane hanno recuperato questa inusitata parola come titolo per una collana di brevi saggi, Le ispiere, appunto, e un’ispiera recente è L’uomo dei dolori, di Salvatore Natoli, il cui primo capitolo è stato anticipato da Agorà il 5 marzo scorso (pp.80, euro 9).
È una breve e densa meditazione sulla passione e morte di Gesù, iconograficamente e liturgicamente rappresentato come Uomo dei dolori, dalle cui piaghe siamo stati risanati. Per due volte, Natoli precisa di «non essere credente» e quel che lo attrae nella predicazione di Gesù è «la terrestrità del messaggio». Posizione che merita rispetto e avvalora la sua testimonianza di uomo buono e sapiente che si arresta alla soglia del mistero. «Crucifixus etiam pro nobis». Natoli commenta che il pro nobis può significare al posto di..., ma anche in favore di... Nel primo caso, il sacrificio di Cristo sarebbe di sostituzione: «Gesù, vittima innocente viene offerto a Dio in soddisfazione delle colpe degli uomini»; in favore di... configura invece «la morte di Cristo come un costo per l’avvento del Regno: più che un atto riparatore è l’investimento della propria vita per sciogliere gli uomini dalla loro miseria, perché nel mondo regni giustizia e pace».
Il “non credente” Natoli, tuttavia, mentre interpreta terrestremente il pro nobis, lamenta che la Chiesa, nella sua più recente inculturazione, al posto del «resurrexit tertia die» abbia reso «d’uso corrente l’espressione: Gesù (o meglio Dio) “in compagnia degli uomini”; l’attesa della fine dei tempi è stata riassorbita in un tempo senza fine». L’autore ricorda che in una Pasqua gli capitò di ascoltare un commento al Regina coeli, ove dal resurrexit sicut dixit il commentatore passò subito a parlare di solidarietà, di condivisione. E conclude: «Questo è assolutamente cristiano, tuttavia non è affatto necessario essere cristiano per fare questo». Parole che interpellano direttamente la nostra coscienza di cristiani. Due considerazioni a lato di questo coinvolgente saggio. La prima è che l’Uomo dei dolori certamente ha sofferto per gli schiaffi, i flagelli, i chiodi della crocifissione, ma il suo dolore più grande non è fisico, è spirituale: mentre lo inchiodano, Gesù riassapora il tradimento di Giuda, la diaspora dei discepoli, vede il male dei peccati del mondo, anche di quelli futuri, mentre tutti li perdona. La nostra è religione dell’incarnazione, corpo e anima compongono un unico io, ma a soffrire è sempre l’anima, è l’anima che dà coscienza del dolore, anche fisico. La seconda riflessione è che la passione è una scelta volontaria di Gesù. Ciò non toglie le responsabilità di Pilato, del sinedrio, dei flagellatori e dei crocifissori, della folla sobillata che preferisce Barabba, ma il mistero dell’Uomo dei dolori è la sua volontarietà di soffrire. Davanti al mistero, percepiamo la nostra limitatezza, l’inadeguatezza del nostro sentire. L’ispiera, raggio di sole che penetra da una fessura, rende visibile la polvere; la polvere di cui siamo fatti.
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