giovedì 9 agosto 2018
Non è facile trovare il proprio posto nel mondo, specie quando si è costretti a cercarlo da soli. In queste settimane d'estate infuocata, poi, l'impresa rischia di risultare impossibile: le città che si svuotano, tutti che vanno da qualche parte in compagnia di qualcun altro, in una specie di ricombinazione universale che sembra fatta apposta per esaltare l'eccezione di chi, per un motivo o per l'altro, si ritrova spaiato. Come Delphine, la segretaria parigina che Éric Rohmer sceglie come protagonista del suo Il raggio verde, vincitore del Leone d'Oro a Venezia nel 1986. Nato a Tulle nel 1920 e morto a Parigi nel 2010, Rohmer (il cui vero nome era Jean Marie Maurice Schérer) è stato uno dei registi più popolari della cosiddetta Nouvelle Vague, la “nuova ondata” di cinema francese che a partire dagli anni Cinquanta ha saputo perseguire un equilibrio sapiente fra le ragioni del pubblico e le istanze degli autori, tra l'osservazione della vita quotidiana e la lezione della grande letteratura.
I sentimenti, in particolare, sono stati il campo d'indagine prediletto da Rohmer, che non per questo può essere accusato di aver fatto del cinema “sentimentale” nel senso deteriore del termine. Ogni suo film si inserisce in un contesto più vasto, che si richiama in modo abbastanza trasparente all'eredità di Montaigne e dei moralistes secenteschi, organizzandosi proprio per questo in schemi narrativi più ampi, profondamente ragionati pur nella loro apparente svagatezza. Il raggio verde, per esempio, appartiene al ciclo “Commedie e proverbi”, all'interno del quale il gioco delle citazioni letterarie è nello stesso tempo deliberato e pressoché inavvertito. Anche il titolo del film è preso in prestito dal romanzo pubblicato nel 1882 da un quasi insospettabile Jules Verne. Come sua abitudine, lo scrittore mette al centro del racconto un fenomeno naturale, quello del rayon verte che appare per pochi secondi al tramonto del sole, attribuendogli però un significato molto più che scientifico: cogliere l'istante in cui la luce cambia colore permetterebbe di conoscere finalmente sé stessi e, più ancora, di saggiare la sincerità della persona che ci sta accanto.
Proprio quello di cui avrebbe bisogno Delphine (l'attrice Marie Rivière, coinvolta anche nella sceneggiatura del film), che nelle settimane estive di vacanze forzate finisce per essere sballottata da una parte all'altra, senza mai riuscire a fermarsi in un posto. Si direbbe che scelga sempre la meta sbagliata o che comunque non riesca a farsi accettare, probabilmente perché lei per prima non riesce ad accettarsi. Dal punto di vista dei meccanismi esteriori, i trent'anni abbondanti che ci separano dall'uscita del Raggio verde si fanno spesso sentire. Quello di Delphine e dei suoi amici è un mondo nel quale la dieta vegetariana è ancora considerata una stranezza e l'onnipresenza dei social network non è neppure lontanamente immaginabile, con il risultato di rendere ancora più consistente la solitudine della protagonista. In un certo senso, è come se la condizione di sperdutezza da cui Delphine è perseguitata costituisse la parte più autentica della sua personalità, quella veramente al riparo dalle barriere erette dalla nevrosi e dall'autocommiserazione. Ma per capirlo occorre uno sguardo allenato e non è un caso che l'unico ad accorgersene sia Jacques (interpretato da Vincent Gauthier), un giovanotto abbastanza sensibile da apprezzare il fatto che Delphine sia una lettrice di Dostoevskij. Diffidente verso tutto e tutti, la donna si fida di lui, a lui si accompagna per una breve vacanza, con lui si siede davanti al mare all'ora del tramonto. Il raggio verde è lì che li aspetta: come una speranza, oppure come un rischio. Come la vita, semplicemente.
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