domenica 29 gennaio 2012
Quando mi è stato proposto di scrivere per Avvenire ne sono stato felice, il solo essere preso in considerazione mi lusingava. Non fatico a riconoscere in me traccia di molti vizi propri dell'uomo; l'orgoglio tracima in superbia e meriti riconosciuti diventano alibi per la propria pochezza. Mi sono preso un po' di tempo per pensarci, ho cominciato a discuterne smettendo subito: ogni interlocutore rimarcava, dato acquisito e indubitabile, la positività del comunicare. Al contrario un radicale sfoltimento di credenze sociali hanno fatto crescere in me una propensione al silenzio; osservare, ascoltare, meditare. Una disciplina dell'operare quotidiano che si riconosce parte di un mistero contro ogni costruzione che tenda a svilirlo, negarlo, offrendo all'uomo la signoria del nulla o la servitù ad una volontà di potenza senza grazia, mortifera.
Se posso permettermi di ridurre ad una parola questo nostro tempo scelgo: sgretolamento. Sociale, politico, individuale, tutto ciò che è legame ne è intaccato; ogni parola pubblica non fa che contribuire a tale processo e quella che pretende di farsi argine lo accelera rendendolo ancor più rovinoso. Si salva la parola liturgica perché non è ascrivibile alla volontà dell'uomo ed è estranea alle dinamiche sociali; salvifica perché salvata. Si salva, con fatica, la parola privata, il racconto dell'esperienza umana dato un tempo che muta nel mutare dei tempi e una genealogia; generazione su generazione è la storia dell'uomo, una madre, un padre e un dono inalienabile: la libertà dell'essere, tutti, figli di Dio. Di che avrei scritto?
Detesto la polemica politica, non mi appassionano i dibattiti culturali, ma mi è stato chiesto, finché il committente è soddisfatto lo sono anch'io; dovesse interrompere il rapporto ne sarei sollevato. Questa settimana volevo raccontare di un inverno pazzo ma bellissimo, ho reminiscenze familiari a cui attingere, ma non ha funzionato; mi trovo costretto al dibbbbattito per eccellenza: la blasfemia di Castellucci. Così va il mondo. Mi sono perso e non me ne rammarico la quasi totalità degli interventi ma la polemica mi insegue, devo affrontarla. Conosco la Societas Raffaello Sanzio da che è nata e si è imposta sulla scena, piuttosto asfittica, del teatro contemporaneo. Ho avuto modo di conoscere e stimare Romeo, Claudia e Chiara, li ho seguiti, da lontano ma partecipe, nella loro fortunata avventura pubblica; addolorato dalla loro storia privata. Sono stati, per me, testimonianza di rigore intellettuale nell'indagare il mistero dell'uomo nel suo legame primario col Divino, di potenza creativa mai disgiunta dal riconoscimento della sacralità del vivere.
Se c'è un teatro italiano a cui non posso imputare la dabbenaggine, la futilità, la servilità ai miti modernisti, un po' clava un po' applausometro per una pigrizia mentale offerta come superiorità morale, Testori e la Societas ne sono parte fondamentale.
Il teatro è cosa seria, può essere molto utile, può fare molto male; non si va a teatro come si va a dottrina, si farebbe torto alla dottrina senza rendere merito al teatro. «Sul concetto di volto nel Figlio di Dio» è titolo bellissimo, un valore a sé, così come il mettere in scena un figlio che si prende cura di un vecchio padre incontinente; poi magari lo spettacolo è mal riuscito, persino un'orribile boiata, ma di cosa stiamo parlando? Quanto al ricoprire quel Santo Volto di sputi, escrementi, violenza, incolpare Castellucci salverà l'umanità dalle sue colpe? Caro Francesco, scrivi: «C'è un uomo che insulta il Dio in cui credono miliardi di uomini …» se davvero miliardi di uomini credono in quel Dio un po' di colpa per l'imbrattamento di quel Volto Santo devono prenderla a proprio carico, non possono proprio esimersi. Anche tu, anche io. Forse dovremmo ringraziarlo, il blasfemo, per tutte le croci che hanno perso per via il Crocifisso, per la gigantografia del Salvator Mundi, perché Miserere mei Deus non Crucifige Romeo.
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