mercoledì 27 ottobre 2010
Puntuale all'appuntamento con l'attualità centocinquantenaria, il giornalista e storico Arrigo Petacco, meno brillante di Montanelli, ma più rigoroso nella documentazione, è presente in libreria con O Roma o morte. 1861-1870: la tormentata conquista dell'unità d'Italia (Mondadori, pagine 168, euro 19). È la ricostruzione, disincantata e attendibile, degli incredibili intrighi, dei tranelli, delle ipocrisie che, insieme alla buona fede e al coraggio di tanti valorosi patrioti, hanno condotto alla nascita di una nazione con troppi peccati d'origine.
Sia ben chiaro: nessuno ormai può seriamente dubitare che l'unità d'Italia sia un bene oggi acquisito e indiscutibile. E tuttavia non si può ripercorre l'itinerario verso l'unità senza avvertire un fremito che rasenta lo sdegno.
In questo percorso Petacco è una guida più che affidabile: non si lascia intimidire dalla vulgata risorgimentale e sa mettere in chiara luce i fatti, raccontandoli con schiettezza e con il sale piccante di qualche aneddoto bentrovato.
Almeno tre sono gli argomenti forti sui quali Petacco fa leva: l'accantonamento del progetto federalista di Cavour, a motivo della prematura morte del cinquantenne statista (1861); la nascita dell'Italia non come nuova nazione, bensì come semplice espansione del Regno di Sardegna, con le sue leggi e la sua politica finanziaria (il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele, mantiene infatti la numerazione di II); infine (ma al primo posto per importanza) la considerazione che «il fattore più disgregante fu la politica anticlericale che, per comprensivi motivi storici e politici, veniva esercitata dal governo italiano in maniera radicale. La religione, "cosa del tutto necessaria" come ammoniva Machiavelli, era infatti, a ben vedere, l'unica "cosa" che accomunava gli italiani. Il combatterla infrangeva quell'unico collante», anche se il potere temporale della Chiesa era un problema e un ostacolo non facilmente superabile.
Petacco è sostanzialmente rispettoso anche di Pio IX, ma sembra non aver capito (o, comunque, non spiega) la vera portata, eminentemente teologica, del dogma dell'infallibilità.
Se poi si mette in conto la carneficina perpetrata dai piemontesi nel Meridione, ben si comprende come tante incomprensioni odierne abbiano radici assai lontane.
Dal racconto di Petacco emerge la meschinità del governo nei rapporti con Napoleone III, il quale "regalò" la Lombardia prima e il Veneto poi all'Italia, senza alcuna riconoscenza del Governo italiano il quale, anzi, approfittò della sconfitta dell'imperatore a Sedan e la proclamazione della Repubblica francese per sferrare l'attacco allo Stato pontificio di cui Napoleone III era sempre stato protettore.
«Meschinità» è proprio la parola adatta per descrivere il comportamento di Vittorio Emanuele e dei suoi governi, non solo nei confronti di Napoleone III, ma anche di Garibaldi, testa calda ma indubbiamente coraggiosa, raggirato prima in occasione dello sbarco dei Mille, poi addirittura ferito in Aspromonte, e infine definitivamente confinato a Caprera. E meschinità fino al punto che il Re, entrato in Roma dopo la breccia di Porta Pia, volle istallarsi al Quirinale, il palazzo residenza del Papa, tuttora occupato dai presidenti della nostra Repubblica.
Petacco riserva simpatia umana anche all'indomita Maria Sofia, ultima regina delle Due Sicilie, che continuò a combattere per la causa borbonica anche da esule in Roma. Motivato disprezzo, invece, per gli imbelli comandanti militari italiani clamorosamente sconfitti anche per i loro interni contrasti a Custoza e a Lissa.
Insomma, l'unità d'Italia è stata conseguita mediante il conflitto: conflitto tra Stato e Chiesa, tra Nord e Sud. E la «memoria del conflitto», come ha scritto recentemente Carlo Cardia su «Studi cattolici» è ciò che impedisce tuttora l'unanimità di giudizio sulla nostra storia risorgimentale, e più tardi, sulla storia della Resistenza.
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