venerdì 12 febbraio 2021
Ebbene sì, tra i 12/13 anni e i 18 sono stato un fan di Claudio Villa, il “Reuccio” della canzone italiana del tempo. Se il diavolo mi avesse chiesto l'anima, dissi una volta in un gruppo di ragazzini, avrei chiesto in cambio di correre come Coppi, ballare come Fred Astaire e cantare come Claudio Villa. Noi adolescenti di famiglia proletaria lo veneravamo, e ci ripetevamo come pillole di saggezza i versi di certe sue canzoni: “Mi dice ancora il cuor / sta' zitto, non parlar, / nemica dell'amore / è la sincerità”, oppure “sono stato per te / un ingrato perché / m'accecò la gelosia”, oppure: “ho consumato mille fazzoletti / e del mio pianto li ho bagnati tutti”... Un romanticismo piuttosto basso, espresso con voce tenorile secondo la moda delle melodie del tempo, e Villa era il continuatore di una schiatta di tenori che cantavano canzonette (Beniamino Gigli, Ferruccio Tagliavini...) e di cantanti che li imitavano (il più squisito di tutti il fiorentino Sergio Buti, modello dichiarato di Villa). Qualche anno dopo ascoltai Villa a San Giovanni una notte del primo maggio, tra le immense tavolate del tempo dove i proletari romani si portavano il cibo da casa ma si facevano servire di vino dei Castelli e di lumache (una strage che si ripeteva ogni anno), peraltro la specialità delle trattorie della zona da decenni (o secoli), e un sapore e odore di cui io avevo ribrezzo, l'unico vegetariano di branco di amici e di amiche... Ma non solo i romani impazzivano per Villa, che più tardi scrisse per Mondadori le sue memorie raccontando, tra l'altro, di essere stati lui e un prete della zona i primi a scoprire i morti delle Fosse Ardeatine (Villa ragazzino andava a riempire una damigiana d'acqua da una rinomata fontana della zona, per poi riempirci le bottiglie di clienti affezionati). E che a Sanremo dette scacco alla mielosissima orchestra Angelini, anche se quei successi lo fecero detestare da un pubblico di nuovi giovani, amanti dei Platters, degli urlatori, di Elvis e poi di Rock around the clock e dei
Beatles. Quando a Sanremo vinse Volare ci dicemmo che potevamo infine liberarci dell'invadenza di Villa (e più ancor di Nilla Pizzi!). Ci facevamo moderni anche noi, con l'arrivo del boom, e il luglio '60 non era lontano, e il centro-sinistra, e il grande cinema di Fellini e Pasolini, e la commedia all'italiana. (Scoprii allora che Sordi era nato a due passi da dove era nato Villa, ma dall'altro lato del Tevere). Villa si azzardò anche a tradurre i Beatles a suo modo, e il suo ultimo trionfo popolare fu Granada. Vorrei ricordare che fu per anni il nome italiano più noto nel mondo, con 45 milioni di dischi venduti, comprese Urss e Cina e tutti i paesi dove i migranti italiani avevano radici. (Ho visto quasi piangere i nostri minatori di Villerupt, dove avevo parenti, ascoltando la sera del sabato nei juke-box delle osterie le canzoni di Villa; con Terra straniera del suo imitatore fiorentino Narciso Parigi, che si chiamava davvero così.) Tanti anni fa ho avuto l'onore di essere invitato a pranzo nella villetta del Reuccio, ai Castelli, e mi ha molto commosso sapere che, quando morì, volle che sul suo loculo fosse scritta l'estrema sintesi della sua essenziale filosofia: “Vita sei grande. Morte fai schifo”.
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