giovedì 13 luglio 2017
Un tema controverso che non finirà mai di creare fraintendimenti e liti, è il rapporto tra committente e artista. Nella mia storia di artista si ripropone frequentemente. La posta in gioco dovrebbe essere la congiuntura di due ruoli distinti e sinergici verso la realizzazione di un'opera, un evento che sposti la percezione, capace di interrogare in maniera diretta e provocatoria le categorie della conoscenza permettendo ove possibile la esplorazione di territori nuovi. Invece spesso la relazione artista committente diventa il teatro di un confronto di poteri senza senso, di sconfinamento in territori non propri, di perdita del rispetto per la autonomia della ispirazione artistica. Negazione di ogni rapporto di committenza serio e sensato. Certo il rispetto è una delle categorie più ostiche su cui misurarsi. Rispetto come accettazione del ruolo di osservatore, del rischio che l'alterità porta con sé senza cui non vi è possibilità di novità vera.
Quale è il diritto di interferenza del committente nella realizzazione di un opera ? Quando l'artista deve rifiutare l'ingerenza? Sono fermamente convinto che l'arte, nel bene e nel male, la fanno gli artisti. E mi rendo conto ogni giorno di quanto questa sia una affermazione scontata e disattesa al tempo stesso. Probabilmente anche per colpa degli artisti che, per convenienza, abdicano al duro ruolo di tenere la barra dritta quando si tratta dei territori impervi ed insidiosi della ispirazione. Questioni economiche, politiche, di diplomazia spicciola personale, spesso trasformano artisti privi di un vero senso identitario in marionette nelle mani di chi affida loro gli incarichi. Marionette che non hanno neanche la qualifica di mercenari. Il mercenario per lo meno rischia di suo. Ha gli attributi in un mestiere che per quanto esecrabile, ti può chiedere prezzi enormi. L'artista, accomodato sul sofà del commenda, in adorazione delle vestali bene della cucina molecolare soggette a deliquio alla vista salvifica di un quadratino bianco su fondo nero, non rischia nulla. Il vero committente ha una grande funzione. Deve stabilire il confine fisico entro il quale la rivelazione artistica si può manifestare. Definire la collocazione, le tempistiche, percepire la vibrazione delle idee nell'aria e dar loro la possibilità di realizzarsi. Quindi individuare chi può dare seguito all'intuizione, individuare l'artista. In questa operazione serve più naso che portafoglio, più fiuto che sfoggio di potere. Poi denaro e possibilità sono certamente strumenti essenziali per attuare i progetti. Ma sono comunque strumenti di facilitazione, non di ricatto. Riconosci il committente fine e avveduto dalla tempistica con cui fa sfoggio delle sue possibilità.
Dal canto suo l' artista non può tradire se stesso. A meno che non si tratti di fare fiorellini o caricature nelle piazze di paese, non può tollerare ingerenza nella sua intuizione, nel momento in cui avverte che è genuina e propria. In questo non vedo mediazioni. Non è una gara per arrivare col miglior tempo. Ognuno deve giocare la propria partita. E lo deve fare con la sua identità. In questa dialettica, se genuina e feroce come una chirurgia, può fiorire la bellezza della diversità, anche nei contrasti, in un percorso di arricchimento comune. Il committente definisce la cornice. Dentro quella cornice sono io, artista, che decido come muovermi. Ma a volte per questioni complesse e variegate di ego fuori controllo, il committente cede alla tentazione di fare l'artista, di fare il giudice, di fare questo e quello, e di cercare nell'artista non una individualità dialogante e interlocutoria, ma un oggetto da piegare alle proprie idee.
A quel punto il committente trasforma se stesso nell'emblema dello spreco. Di risorse, perché non investe in altri che in se stesso, ma ancor più di vita, di relazione di rapporto umano. Cercando la propria gloria, la tradisce lui stesso, bloccato compulsivamente autoreferenzialità che è la negazione assoluta di ogni forma di arte.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: