Proust e gli altri: troppo belli per essere letti
venerdì 1 giugno 2018
Che cos'è un classico? La risposta più pessimistica ma forse anche più attuale, credo che oggi sarebbe questa: si dicono classici i libri e gli autori di cui si conoscono, si ricordano, si citano titoli e nomi, ma che non vengono letti. La ben nota formula di Italo Calvino nel suo libro Perché leggere i classici? era non meno semplice e in apparenza più positiva: i classici è «meglio leggerli che non leggerli». Nell'apprezzabile, inossidabile, astuto umorismo di Calvino si nascondeva tuttavia un'ombra: se c'è bisogno di dire che «è meglio leggerli» vuol dire che proprio sui classici più famosi incombe il rischio della non lettura. Se poi si pensa che i classici sono non solo e non tanto da leggere, quanto piuttosto (e per definizione) da rileggere, allora la questione si fa ancora più grave. Quando l'Occidente, l'Europa, l'Italia inalberano con orgoglio la bandiera della loro cultura si pensa, mi pare, più alla libertà di scegliere fra partiti da votare o diversi prodotti da consumare (abbigliamento, auto, canali televisivi, mete turistiche, modi di apparire, simboli di status sociale ecc.) e molto a meno alla libertà, mai da nessuno minacciata, di leggere l'Iliade, le Confessioni di sant'Agostino e quelle di Rosseau, Moby Dick, Pinocchio o Delitto e castigo. Ma anche il Novecento è ormai abbondantemente trascurato proprio in quanto considerato classico. L'editore Sellerio ripubblica in volumetto, a cura di Eleonora Marangoni e con il titolo Un altro Proust (pagine 136, euro 10,00), la «radiorecita» trasmessa nel 1952 dal Terzo Programma Rai che Giacomo Debenedetti dedicò al suo narratore preferito, quello che fin dalla prima giovinezza fu il suo più costante ispiratore. Si tratta di un testo piacevolmente polifonico nel quale si confrontano con Proust alcune figure dialoganti: il Critico, la Donna, due Lettori e il Pubblico. Il genere, tipicamente debenedettiano, è quello della «conversazione idealizzata» o utopica in cui la semplicità colloquiale è solo una musica dialogica elegantemente affabile, capace però di produrre anche le analisi critiche più sofisticate. Si tratta insomma di uno dei capolavori stilistici di Debenedetti in cui la critica letteraria viene appunto “recitata” e restituita alla sua origine comunicativa più genuina: quella della conversazione. Tra le prime battute del Critico e della Donna emerge subito il problema: le «glorie definitivamente consacrate», «i tributi abitudinari di rispetto» sono un pericolo per gli autori. La ricerca del tempo perduto tutti la ricordano «anche senza averla letta». Secondo un mio amico professionista editoriale di lungo corso, noto e autorevole, succede oggi che per gli autori che hanno meno di quarant'anni la letteratura di qualche decennio fa è come se non fosse stata mai scritta.
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