mercoledì 23 aprile 2008
Nessun decennio ha potuto rivaleggiare con la straordinaria accolta di artisti che, intenzionalmente o per caso, si dette convegno nella Parigi degli Anni '20. Pittori, scrittori, coreografi, poeti, fotografi e stilisti europei e americani affollarono i bistrot di Montparnasse, elaborando un'avanguardia artistica mitizzata anche aldilà della consistenza effettiva delle opere realizzate.
Gertrude Stein, Hemingway, Pound, Joyce, Sylvia Beach, Tamara de Lempicka, Fitzgerald, Man Ray sono personaggi che si frequentarono tra rivalità e amicizia, in un clima spesso torbido quando non apertamente dissoluto.
Marco Innocenti e Laura Levi Manfredini hanno ricostruito quella stagione, travolta dalla crisi del '29 e poi definitivamente dalla seconda Guerra mondiale, in un libro sveltamente giornalistico intitolato Gli anni folli. Parigi e gli artisti della generazione perduta (Mursia, pp. 224, euro 17).
Gli autori si lasciano trasportare dal racconto senza troppe pretese filologiche, anche se un po' più di rigore sarebbe stato gradito. Per esempio, non spiegano come Gertrude Stein coniò lo slogan della «generazione perduta», che continuamente trascorre dal sottotitolo alle pagine del libro e che Hemingway aveva messo in esergo a Il sole sorge ancora. In realtà lo slogan non fu coniato dalla Stein, ma dal carrozziere al quale la scrittrice aveva portato l'automobile da riparare, il quale, indicando il giovane garzone, reduce dalla Grande Guerra, che svogliatamente si era applicato al lavoro, scosse il capo generalizzando: «È una generazione perduta». La Stein colse al volo la frase (il genio sta anche in questo) e la applicò agli intellettuali fra le due guerre, rovinati anche dall'alcol e dalle droghe, a cominciare da Fitzgerald.
Genialissima Gertrude di certo lo era, tanto che (ma questo Innocenti non lo dice), ascoltando il ritmo dell'amato barboncino Basket quando beve, disse di essere giunta «a distinguere la differenza tra le frasi e i paragrafi, che un paragrafo è una cosa emotiva e una frase no». Una lezione di linguistica dalla lingua del barboncino.
Particolarmente inadeguato il capitolo su Ezra Pound, dove fra l'altro si dice che, «sentimentalmente irrequieto, conosce nel 1922 la violinista Olga Rudge, da cui tre anni dopo ha un figlio». Un figlio? Una figlia, Mary, che sposerà Boris de Rachewiltz e che, col cognome del marito, diventerà interprete e vestale dell'opera del padre. Il figlio venne dalla moglie Dorothy, anche se non è certissimo che Pound, che pur riconobbe il piccolo Omar, ne sia stato il padre.
Molto bene, invece, viene descritta la taccagneria egocentrica e mitomane di James Joyce, la cui avidità di diritti d'autore mandò in fallimento la povera Sylvia Beach che gli fece il favore di pubblicare l'Ulysses.
Gli autori sembrano guardare dal buco della serratura quelle esistenze distruttive e autodistruttive, senza prendere posizione su quel dilagare di omosessualità maschile e femminile, sulla ninfomania di Peggy Guggenheim o di Kiki, la modella di Man Ray e d'altri. Forse si potrebbe dire che la valutazione morale è implicita nella descrizione, ma resta il dubbio che gli autori siano provincialmente intimiditi dai personaggi di cui raccontano le gesta come se fossero gli dèi dell'Olimpo, aldilà dei parametri etici dell'agire umano.
Certo, alcuni di quei debosciati hanno prodotto anche dei capolavori, ma il prezzo pagato è stato troppo alto, a volte fino al suicidio. Un cenno di compassione e di esplicita presa di distanza non sarebbe stato superfluo.
PS. Il cognome del poeta Blaise Cendrars (pseudonimo di Frédéric Sauser Halle) è ripetutamente scritto «Cendras». Troppo per essere un semplice refuso.
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