giovedì 17 maggio 2018
Non fosse altro, L'uomo di ferro di Andrzej Wajda sarebbe già di per sé una grande storia d'amore: quello tra la cineasta Agnieszka (l'attrice Krystyna Janda) e l'eroe operaio Maciek, figlio di un altro operaio ancora più eroico, Mateusz Birkut (entrambi i personaggi sono interpretati da Jerzy Radziwilowicz). Già acclamato come campione dello stacanovismo dal regime comunista polacco, negli anni Cinquanta Birkut senior è caduto in disgrazia per ragioni mai del tutto chiarite. Il tentativo di ricostruire la sua vicenda costituiva la materia di L'uomo di marmo, il film diretto dallo stesso Wajda nel 1977 e che dell'Uomo di ferro – Palma d'Oro a Cannes nel 1981 – rappresenta la premessa necessaria. In entrambi i casi, tocca all'indomita Agnieszka cercare di orientarsi in un labirinto di reticenze e omissioni, fino a ottenere una versione attendibile dei fatti. Con una differenza fondamentale: se nell'Uomo di marmo è di scena la storia, nell'Uomo di ferro è la cronaca che irrompe.
La cosiddetta dimensione metacinematografica (il film nel film, si potrebbe dire, o un film che dialoga con altri film) non è un'esclusiva del dittico diretto da Wajda. Basti pensare al celeberrimo Effetto notte di François Truffaut, che tra l'altro cade negli stessi anni, essendo stato premiato con un Oscar nel 1973. Ma a Wajda – morto nel 2016 all'età di novant'anni – non è tanto il gioco dei rimandi che interessa, quanto la possibilità di dare corpo a un cinema veramente politico: per gli argomenti che tratta, in primo luogo, ma anche e specialmente per la capacità di mobilitare le coscienze.
Rispetto al 1977, quando il desiderio di giustizia sembrava consumarsi in un coraggioso recupero del passato, la Polonia dell'81 sta vivendo l'epopea di Solidarnosc, il libero sindacato fondato l'anno precedente e destinato a finire al bando qualche mese dopo l'uscita del film. Nell'Uomo di ferro, dunque, Wajda rinuncia a ogni distanza con le vicende narrate, adottando uno stile che aderisce in maniera ancora più radicale alla concitazione della presa diretta. Agnieszka è ormai venuta a capo del mistero che pareva circondare la caduta di Birkut, emarginato per essersi rifiutato di avallare uno dei tanti processi-farsa cari alla propaganda comunista. Durante le sue ricerche la donna ha appunto conosciuto Maciek, i due si sono innamorati e sposati, ma l'inquietudine dell'uomo non si à mai del tutto attenuata. Adesso è diventato uno dei leader di Solidarnosc, ritrovandosi a sua volta sotto l'occhio inquisitore delle autorità. A seguire da vicino le sue mosse è in particolare il giornalista Winkiel (impersonato da Marian Opania), che sotto l'urto degli eventi abbandonerà il compito di delatore per sostenere la causa di Solidarnosc. Nell'Uomo di ferro c'è la storia raccontata nel momento stesso in cui avviene, in una continua rifrazione di episodi e testimonianze. Non meno decisivo, però, è il rapporto tra Agnieszka e Maciek, legati l'uno all'altra dal dovere della testimonianza non meno che dalla tenerezza del patto coniugale. Lui ha bisogno di misurarsi una volta per tutte con l'ombra del padre, lei non può rinunciare alla sua missione di documentare e comprendere. Intorno a loro, la Polonia è un mondo in miniatura, nel quale vorticano inganni e speranze, slanci di generosità e piccole codardie quotidiane. Come spesso accade nel cinema di Wajda (si pensi al magnifico Katyn del 2007), è la figura femminile a imporsi in tutta la sua forza e bellezza. Se Agnieszka affascina fin dalle prime inquadrature, il dramma di Maciek richiede più tempo per essere assimilato e condiviso. Quando si passa dalla sua parte, però, si resta con lui per sempre, accada quel che accada.
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