domenica 14 luglio 2013
Ascolto una ballata composta in un campo di concentramento. È di un compositore austriaco morto ad Auschwitz, Viktor Ullmann. Perché nei campi si componeva e suonava. Non in quelli di sterminio, certo, dove si poteva solo morire, ma in quelli di concentramento e lavoro, in quelli di transito, nei ghetti della Polonia, nel campo di Terezin dove furono rinchiusi gli intellettuali ebrei di mezza Europa prima di essere avviati alla morte. È la musica concentrazionaria, composta in cattività, con il fiato della morte sul collo. Molti ricercatori sono andati indagando le tracce di quelle musiche, negli spartiti rimasti ormai cancellati dagli anni, nella memoria dei musicisti che l'hanno suonata. Tracce scritte, tracce orali, musicali. Testi poetici anche, ritrovati dove un marito li aveva sepolti per preservarli mentre la moglie poetessa che li aveva composti andava a morire. Dove era possibile, si suonava, si scriveva poesie, e se non si poteva almeno si recitava Dante, come fece Primo Levi per resistere alla disumanizzazione. Cosa sarebbe diventata la musica se quei compositori avessero potuto vivere e continuare a comporre? E la poesia? Sono le tracce di ciò che non è stato, ancora più forti e più emozionanti forse di quelle di ciò che è stato.
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