giovedì 14 gennaio 2021
Abbiamo perso la faccia. Quella che nelle società asiatiche viene ritenuta una situazione insostenibile e che nella nostra è lo spauracchio di fare brutta figura, di cadere nell'imbarazzo o nella vergogna è diventata una situazione oggettiva. La nostra faccia per strada, nei negozi, perfino in casa è persa. Al pari di ciò che in società islamiche "velate" accade nella vita quotidiana, siamo costretti a cercare nello sguardo altrui gli indizi che il resto del volto non manda più. Daniele Billitteri, giornalista siciliano, ricoverato per Covid il 3 Dicembre racconta di non avere visto per settimane mai il volto intero di chi lo soccorreva, lo curava o lo circondava. Lui che, in genere, non faceva caso al colore degli occhi, che non ricordava nemmeno quello delle figlie, adesso si appiglia agli occhi che ha intorno. Ne cerca di dedurre la preoccupazione del medico per la sua salute, la tristezza dell'infermiera stanca, l'allegria degli occhi azzurri della donna delle pulizie. Siamo diventati sguardi che domandano l'identità ad altri sguardi. Ci rendiamo conto spesso di non riconoscere e di non essere riconosciuti.
Nel mondo greco classico il volto era "prósopon", era anzitutto "viso", cioè "visto". È da lì che si riconoscevano le persone ma anche gli dèi, dal viso rivolto e dall'andatura, quella di Socrate diversa da quella di Athena. Per i romani invece predominava "os" la bocca, la sede della parola e la parola stessa. Era questa a distinguere la bocca dal muso degli animali. Per i francesi di oggi l'insulto più grave è ancora "ta guele", il tuo butto muso. In latino "facies", da cui viene la nostra faccia sta solo per le fattezze, e solo nel volgare diventa sinonimo di volto. Quello che ci permette di stare "faccia a faccia", ciò che oggi più ci manca, perché, siamo sinceri, per quanto abbiamo in passato mitizzato la digitalizzazione, vedersi in Zoom, webinar, Skype non è stare "faccia a faccia". E provate a guardare su Skype negli occhi l'amato.
La pandemia sembra quasi un corollario della rivoluzione digitale, ha sottratto concretezza al mondo e ci ha privati della "carne" di cui sono fatti gli incontri, i saluti, lo scambiarsi opinioni, quel "faire face" che significa molto di più che confrontarsi, perché non è solo la presenza delle fronti a essere necessaria. C'è una connessione diretta tra globalizzazione, digitalizzazione e pandemia e la ricaduta diretta è nel farci capire, mai come prima, il valore essenziale del faccia a faccia. Una mascherina copre la nostra bocca e il nostro naso e a volte il mento. Non è una maschera come lo sono le maschere della commedia dell'arte o quelle delle culture indigene. Per gli Inuit del grande Nord la maschera era un modo di rivelare un'altra identità. Nell'individuo mascherato si manifestava l'anima degli animali, dell'eroe fondatore, degli antenati. La maschera testimoniava della ricchezza di anime di cui era costituito ciascuno. Non copriva, ma apriva ad altre dimensioni. Nella riduzione quotidiana a cui le mascherine ci sottopongono rimane un residuo di mistero, quel cercare l'altro "dietro" al suo nascondimento.
È frustrante, ci nega quella manifestazione del divino che è il volto per Emmanuel Lévinas e ci costringe a immaginare, indovinare, interrogare lo sguardo con il nostro. È una prova, speriamo passeggera, e soprattutto è la fonte di una nostalgia che forse ci rende più critici rispetto alle opportunità offerte dal digitale. Esso, nella sua origine e nella sua radice è un "surrogato di presenza", un continuo rimandarci alla promessa che l'altro si farà vedere in carne e ossa. Occorre non dimenticarlo, accontentarsi di un surrogato di presenza ci conduce solo a un mondo di nostalgie frustrate.
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