martedì 28 agosto 2018
Più passano i giorni più si rafforza l'impressione che per la "Vecchia Europa" stia suonando la campana dell'ultimo giro. Tra non molti mesi, al prossimo voto per il Parlamento di Strasburgo, la micidiale miscela di populismo e sovranismo potrebbe presentare ai leader politici del Continente che ancora credono nell'ideale comunitario un conto salatissimo, forse impossibile da saldare se non al prezzo di un drammatico balzo a ritroso nella storia. Resta poco tempo per mandare ai cittadini dei "27" segnali chiari e inequivocabili che si desidera veramente rilanciare il progetto comune, per impedire il ritorno a un passato costato sangue, sudore e lacrime, per citare l'europeista Churchill.
Ma deve trattarsi di segnali davvero comprensibili, tali da suscitare negli elettori la fondata speranza che si intende fare sul serio e cambiare registro. Messaggi capaci di garantire che lo slogan "più Europa" non susciti piuttosto un supplemento di ripulsa, visto lo scontento e lo scetticismo che la "dose" somministrata fin qui ha diffuso nell'opinione pubblica. Ci si deve impegnare a indicare svolte effettive, con traguardi concreti e scadenze certe. Soprattutto con
risorse adeguate a conseguire i primi e a rispettare le seconde.
Proprio sul terreno delle disponibilità finanziarie, si sente ormai l'urgenza di una svolta se possibile clamorosa, occorrono iniziative convincenti per evitare il collo di bottiglia della trattativa fra gli Stati membri affinché aumentino le rispettive contribuzioni. Che fine hanno fatto, per citare due esempi, il progetto di una "Tobin tax" sulle transazioni finanziarie internazionali e quello di una "web tax" a carico dei colossi di Internet che mietono profitti a miliardi e pagano ai singoli Paesi briciole di imposte? Si tratta di strumenti fiscali in grado di garantire all'Unione risorse aggiuntive consistenti e per di più "proprie", non soggette cioè al consenso dei governi nazionali.
Sulla Tobin, dopo l'iniziale fiammata di interesse comune del 2011, l'anno nero della crisi dei mercati, sembra scesa una cortina di silenzio e disinteresse. Il principio sacrosanto di colpire almeno in una certa misura i raid speculativi degli squali di Wall Street e dintorni è stato sacrificato sull'altare del realismo e, da ultimo, è stato accantonato alla luce della Brexit, con l'attesa fuga di molte attività finanziarie da Londra verso altre capitali europee, che l'adozione di una sia pur limitata imposizione potrebbe scoraggiare.
Di web tax si parla invece molto, si sfornano anche bozze e documenti, ma non si vede nessun passo avanti reale. È trascorso un anno esatto dalla famosa lettera che i "quattro grandi" dell'Unione (Germania, Francia, Italia e Spagna) sottoscrissero per spingere l'adozione di un provvedimento sacrosanto. Subito è partita la controffensiva dei mini-paradisi fiscali (Irlanda, Malta, Lussemburgo, Olanda) che garantiscono trattamenti tributari di favore alle major padrone della rete. Di recente, anche Berlino sembra essersi raffreddata, forse timorosa di aggravare il conflitto commerciale con gli Usa. E pazienza se il mancato avvio dell'imposta sottrae alcuni miliardi alle casse di Bruxelles.
Ma allora con quale coraggio i vari Merkel, Macron, Sànchez e quant'altri (lasciamo fuori i nostri per il momento, visto il loro tasso di europeismo a dir poco incerto) chiederanno agli elettori di rafforzare l'edificio comune? Come spiegheranno la rinuncia a impedire che i famigerati "Gafa" (Google, Apple, Facebook e Amazon) continuino a registrare fatturati
astronomici pagando pochi spiccioli (in Italia è stato calcolato che, tra tutti, versino al fisco quanto paga da sola un'industria come la Piaggio: più o meno 12 milioni l'anno)? Con quei soldi a disposizione, invece, tanti impegni si potrebbero affrontare. A cominciare dall'emergenza immigrazione, come suggeriva di recente il nostro Enzo Moavero alludendo proprio alla web tax. Si attende una scossa, altrimenti il terremoto arriverà dalle urne e sarà molto più doloroso.
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