giovedì 28 febbraio 2008
IV Domenica di Quaresima
Anno A

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Siloe (che significa "Inviato")». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?». Egli rispose: «Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: "Va' a Siloe e lavati!". Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». (...) Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c'era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui (...)?». Egli rispose: «È un profeta!».

Dentro la luce del giorno cerchiamo tutti un'altra luce, come il cieco dalla nascita che scopre progressivamente la verità di Gesù: è un profeta, è il figlio dell'Uomo, è il Signore.
Come lui, abbiamo bisogno di fede visibile e vigorosa, di fede che sia pane, che sia visione nuova delle cose.
Gesù, dopo un gesto iniziale carico di simboli e di tenerezza, scompare, lasciando la scena alla dialettica degli altri, tutti a difendersi, ad attaccare, a parlare senza sosta e senza gioia. E nessuno che provi pena per gli occhi vuoti del cieco; nessuno che si entusiasmi per i nuovi occhi illuminati. Gesù non ci sta, non ha nulla da spartire con un mondo fatto di parole e di teorie. Egli è la «compassione», non la spiegazione.
Esattamente ciò che cerca la muta speranza del cieco: mani che lo tocchino, e qualcuno che sugli occhi spenti metta qualcosa di proprio, come quella piccola liturgia di mani, di fango, di saliva, di cura, che Gesù celebra. Cerca partecipazione, non spiegazione.
Invece i farisei hanno edificato un mondo di parole e di sofismi, che non sa più ascoltare la vita. Come loro anch'io talvolta chiudo l'uomo vivente e dolente dentro la griglia della teoria religiosa o della norma etica. È un mondo cieco, dove coloro che si dicono sapienti non sanno più parlare alla speranza. Burocrati delle regole e analfabeti del cuore.
Infatti nelle parole dei farisei il termine più ricorrente è peccato: «noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore»; «sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». Prima ancora i discepoli avevano chiesto: «chi ha peccato? Lui o i suoi genitori?».
La loro è una religione immiserita a questioni di peccato. E il peccato è innalzato a teoria che spiega il mondo e interpreta la realtà. E perfino l'agire di Dio.
Ma il peccato non è rivelatore, rende ciechi, davanti all'uomo e davanti a Dio. E Gesù capovolge immediatamente questa mentalità: l'uomo non coincide con il suo peccato, ma il bene possibile.
E non parlerà di peccato se non per dire che è perdonato; e per assicurare che Dio non spreca la sua eternità in castighi, che non può essere appiattito sul nostro moralismo.
Egli è compassione, futuro, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre, porta luce e fa nascere. Egli vive per me e dalle sue mani la vita fluisce per me, come fiume e come sole, gioiosa, inarrestabile, eterna.
(Letture: 1 Samuele 16,1b.4a.6-7.10-13a; Salmo 22; Efesini 5,8-14; Giovanni 9,1-41)
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