domenica 11 ottobre 2020
Meglio non chiedere mai ad alcuno: "Mettiti nei miei panni". Quando la tentazione sorge, la frase può sciaguratamente affiorare sulle nostre labbra, come estremo tentativo, non sentendoci compresi. Se gli argomenti sono stati vani, ci appelliamo alle doti empatiche dell'interlocutore. Avanti, prova a metterti nei miei panni, immedèsimati in me. Non ci riesci, vero? Vedi come sei poco empatico e comprensivo? Come sei arido e senza cuore, incapace di infilarti dentro i miei calzini, le mie scarpe, le mie brache, la mia camicia... poiché questi, propriamente, sono "i miei panni".
Non chiediamolo a nessuno, neppure a noi stessi, perché è impresa impossibile. Panni, la parola di oggi, è parolina quando, colorati e nervosi, svolazzano appesi al sole. Ma si tramuta in parolaccia quando viene usata come sfida impossibile: avanti, prova a metterti nei miei panni! E se non ci provi, e se non ci riesci, non hai alcun diritto di giudicare le mie azioni e i miei pensieri.
Ma allora dobbiamo rinunciare ad assumere la prospettiva altrui, a vedere le cose come le vedono lui o lei? No. Ascoltare si può e si deve. Comprendere le ragioni altrui è necessario. Ciò che è impossibile è immedesimarsi del tutto in qualcun altro. In effetti, chi può proclamare di conoscere alla perfezione se stesso, e pretendere che altri facciano altrettanto? Tutti noi, a volte, ci sorprendiamo per qualche nostra azione o nostro pensiero di cui non ci ritenevamo capaci. Accade di meravigliarci: perbacco, non pensavo di poter giungere a tanto! Oppure: mi vergogno del mio stesso pensiero. E ancora: è vero, ho compiuto quel gesto sconsiderato, ma in quel momento non ero io. Se non eri tu, allora chi eri? Unica risposta plausibile: eri una parte di te di cui ignoravi l'esistenza, ma eri tu, un tu di cui non vai fiero.
Peraltro è vero che tanti detti della saggezza popolare invitano a infilarsi nei panni altrui. Un invito attribuito ai nativi americani è di camminare qualche miglio dentro i mocassini dell'altro, prima di permetterti di giudicarlo: le scarpe sembrerebbero meno impegnative dei panni, ma il principio è lo stesso, o forse no, se indossare le scarpe può significare cercare di scoprire da dove vieni e quanta e quale strada hai percorso. La storia di un individuo non andrebbe mai ignorata. Molto più esigente sembrerebbe il poeta Walt Whitman: «Io non chiedo al ferito come si senta, io divento il ferito». Sembrerebbe l'invito a un'immedesimazione totale, quasi una fusione oggettivamente impossibile. Neanche all'Actors Studio pretendono tanto, o forse sì, e questa è la ragione per cui il metodo Stanislavskij, assunto in forma radicale, farebbe andar fuori di testa gli attori e quindi va mitigato. Ma forse Whitman intendeva solo sottolineare un obiettivo, uno sforzo, una tensione: provate, provate a diventare come il ferito. Un ferito in battaglia, ma anche un ferito nel cuore, una vittima della macchina tritatutto del lavoro, un deluso dalla vita, una persona confusa. In questi casi, prima di tanti ragionamenti, e spesso al posto di essi, vale un abbraccio intenso, sincero e silenzioso. Una silente vicinanza di corpo e spirito.
Meglio dunque dire così: non ti chiedo di metterti nei miei panni ma, semplicemente, di accogliermi. Di non giudicarmi, ma di starmi accanto, se possibile. Perché siamo tutti diversi l'uno dall'altro, inconoscibili a noi stessi. Erich Fromm avvertiva: «Il mio io totale, la mia intera individualità, la mia entità, la quale è unica come lo sono le mie impronte digitali, non può mai essere pienamente compresa, neppure per via empatica, perché non vi sono due esseri umani identici».
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