mercoledì 2 ottobre 2019
Nel 1993, Mari-no Freschi aveva invita-to il fior fiore dei germanisti italiani a esprimere «la genesi del loro innamoramento, del loro disagio, del loro spaesamento e del loro vitale e creativo interesse per la cultura tedesca, intesa quale realtà umana, intellettuale, artistica». Raccolsero l'invito Angelo Bolaffi, Vittorio Brunelli, Italo Alighiero Chiusano, Aldo Giorgio Gargani, Claudio Magris, Mario Trevi, Valerio Verra, e ne uscì il libro intitolato La mia Germania, che ora viene riproposto, a distanza di una generazione, con lo stesso titolo, a cura di Marino Freschi (Bonanno, pagine 148, euro 14). Venticinque anni dopo, alcuni contributori sono defunti (Brunelli, 1995; Chiusano, 1995; Gargani, 2009; Trevi, 2011; Verra, 2001), mentre sono nuovi entrati Anna Maria Carpi, Luigi Forte, Roberto Zapperi, Fulvio Tessitore, Domenico Conte. In questi casi si sottolinea l'attualità “profetica” delle testimonianze, ma qui non ci sono profezie: c'è il racconto della propria sintonia con la cultura tedesca, molto variegata e interessante. Brillanti, anche narrativamente, le pagine di Italo Alighiero Chiusano: «Nei momenti in cui ho il “mal di Germania”, desidero avidamente di mangiare alla tedesca. Naturalmente qualcosa come l'Eibein o il lombo di capriolo con composta di mirtillo rosso, perché i Vürstchen coi crauti ormai li trovi dappertutto anche da noi. Però, in mancanza di meglio, avanti anche i salsicciotti con la senape, e naturalmente birra tedesca alla spina, se proprio una buona bottiglia di vino del Reno è troppo distante per essere afferrata». E, oltre alla letteratura, ci sono la musica, il teatro, le arti figurative, tutto in Germania fa cultura. Dice molto bene Claudio Magris, intervistato dallo stesso Freschi: «Fin dall'adolescenza, qualcosa della irreducibile peculiarità tedesca, nel bene e nel male, di quel groviglio di interiorità contorta, passione dell'ordine e propensione al caos di cui è intessuta, nelle sue grandezze e nelle sue miserie, tanta storia tedesca, poteva essere già presagita da me, in nuce». Troviamo quasi una conclusione in queste osservazioni lasciate da Angelo Bolaffi, esperto dell'opera di Carl Schmitt e di Max Weber, autore del volume Il crepuscolo della sovranità (2002): «E se anziché temere il “modello tedesco” l'Europa cominciasse a capire che farebbe molto meglio a imitarlo? Se invece di seguire sempre e solo con apprensione quanto accade al di là del Reno gli europei provassero anche ad apprezzare le ragioni che sono state alla base del successo economico e della stabilità della Germania occidentale del secondo dopoguerra? E se la smettessero di fare un uso sconsiderato e provocatorio del diritto alla memoria storica? Certo c'è sempre la comoda via d'uscita del pregiudizio: non è forse l'intollerabile propensione tedesca all'efficienza il segreto demone che si aggira tra gli orrori della “banalità del male”? Forse. Ma a che serve un simile ragionamento se non a rinfocolare antichi odi e a riaccendere risentimenti pericolosi?». Sono osservazioni scritte nel 1993 e, se non profetiche, si può ben dire che conservano intatta la loro attualità.
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