sabato 23 novembre 2013
Mia nonna veniva da una famiglia agiata; e adolescente aveva dovuto subirne la decadenza: per una brutta storia di miniere fallite e di cadute da cavallo. Di questo però lei non parlava mai. Le piaceva invece raccontarci della sua infanzia: di quando, nelle belle stagioni e per le feste, andavano sul landò di famiglia in una loro immensa, leggendaria casa di campagna (con chiesetta privata), «Pischina». Una specie di paradiso: sovrastato da un'ava pazza, Mamma Grande; che dopo essersi fatta pettinare si bagnava i capelli, per fermarli, con acqua zuccherata: e quindi doveva vivere sotto una garza, a causa delle mosche. Era per lei che la vigilia del 2 novembre si apparecchiava la cena dei Morti: colmando la lunga tavola d'ogni ben di Dio. Quando la pendola suonava i dodici colpi, tutti i parenti e gli ospiti, nelle loro bianche camicie da notte, le facce ben infarinate, giungevano dal buio in fila indiana, salmodiando il Rosario a mani giunte. Giravano tre volte attorno alla tavola, poi sedevano per la silenziosa, interminabile mangiata. Mamma Grande stava a guardarli, attonita, e in ciascuno riconosceva un suo caro perduto. Mia nonna sposò, giovane, un medico: che morì a cinquant'anni, lasciandola con sette figli. Mio padre, diciottenne studente di Medicina, era il maggiore di essi.
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