mercoledì 6 giugno 2012
Che Giacomo Leopardi abbia poco da spartire con i romantici e sia, semmai, l'ultimo dei classici, l'ho imparato a scuola, ma Pier Vincenzo Mengaldo sostiene che «l'assimilazione di Leopardi al Romanticismo era un tempo moneta corrente» e «a tutt'oggi non è morta». Dunque, Mengaldo ha riunito alcuni suoi studi leopardiani in Leopardi antiromantico (Il Mulino, pp. 216, euro 19), e lo fa così bene che è un piacere leggerlo anche se la tesi non è nuova, almeno per chi ha avuto un bravo docente di scuola media superiore (il mio, bravissimo, si chiamava Bonaventura Piatti, bergamasco, e la mia imperitura gratitudine è anche per avermi fatto amare il Settecento, non solo Metastasio, bensì Paolo Rolli, le cui Rime ebbi anni addietro la ventura di trovare a poco prezzo su una bancarella nell'edizione originale 1744). Dunque, Leopardi è antiromantico per almeno tre ragioni, che Mengaldo supporta attingendo con abbondanza alla letteratura universale: la prima è l'assenza «di quell'esotismo che dei romantici è una delle sigle»; la seconda è l'estraneità leopardiana al gusto medievistico dei romantici; la terza è che «non è cosa per nulla leopardiana il culto per il magico-fantastico e per il satanico» (Leopardi non ha bisogno del demoniaco perché per lui demoniaca è la Natura tutta). Se la linea sublimata da Mallarmé conduce alla poesia ermetica, la linea Baudelaire-Browning convoglia alla poesia «metafisica», cara a Pound e a Montale, intesa «come cozzo della ragione con tutto ciò che non è ragione», definizione montaliana in cui il tardo illuminista Leopardi avrebbe ben potuto riconoscersi. I capitoli centrali del libro di Mengaldo, molto tecnici, affrontano suggestive questioni linguistiche e metriche della lirica leopardiana, mentre gli ultimi tre commentano tre capolavori assoluti come «La sera del dì di festa», «A Silvia» e «La quiete dopo la tempesta». In particolare, mi ha fatto piacere veder restituita a Silvano Agosti l'intuizione che il «salivi» dell'ultimo verso della prima strofa di «A Silvia» («il limitare / di gioventù salivi») è l'anagramma di Silvia, perché per tutta la strofa, giocata sui fonemi "s, "l, "v", il poeta non ha fatto altro (direbbe Gertrude Stein) che «accarezzare, completamente accarezzare e chiamare» il nome della ragazza rimpianta. (Rimasi abbagliato dal lampo di Agosti quando apparve sul n. 14 di Strumenti critici, nel febbraio 1971, e non mi spiego perché i leopardisti non l'abbiano finora valorizzato). È nel commento alla «Quiete dopo la tempesta» che Mengaldo dà il meglio di sé. Egli mette la «Quiete» in dittico con il quasi coevo «Sabato del villaggio», per illustrare la concezione leopardiana del piacere come cessazione del terrore nella «Quiete», e come attesa nel «Sabato». Non che il «Sabato» sia una correzione della «Quiete», ma ne è comunque un'attenuazione «come di chi guarda allo stesso nodo della condizione umana da due punti di vista che non coincidono: l'assurdità del piacere da un lato, dall'altro la sua possibilità di comporsi con la speranza e con quelle illusioni che, come sappiamo bene da tante pagine di Leopardi, sono per lui l'unico sale della vita». Ne viene una predilezione per l'ossimoro (coesistenza di contrari), non solo nell'aggettivazione (per esempio, in «Silvia»: «occhi ridenti e fuggitivi», «lieta e pensosa»), ma anche nel supremo ossimoro esistenziale e poetico del grande recanatese: la poesia, anche quando esprime i contenuti più disperati è pur sempre comunicazione di vitalità, come si legge nello Zibaldone: «Hanno questo di proprio le opere di genio, che anche quando rappresentano al vivo la nullità delle cose, quando anche esprimano le più terribili disperazioni... servono sempre di consolazione, riaccendono l'entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, ne rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta».
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