martedì 19 settembre 2017
«Riconquistare i cuori e le menti degli Europei». Accanto ai citatissimi riferimenti all'economia, alla Brexit, alla pace, al terrorismo, alla Libia, ai vaccini e all'immigrazione (con tanto di elogio sperticato all'Italia salvatrice dell'«onore» comunitario), nel suo discorso sullo stato dell'Unione Jean-Claude Juncker ha infilato questa bella frase che pochi mass media hanno ripreso. Sarà perché l'Europa ormai "tira" poco, ma colpisce che non sia stato dato risalto al tono complessivo dello speech pronunciato mercoledì scorso del presidente della Commissione davanti all'Europarlamento. Non immune da scarti umorali, da sospetti di favoritismi fiscali a vantaggio del suo Paese (vedi la vicenda Lux-leaks) e da qualche clamorosa gaffe, l'ex premier lussemburghese ha nondimeno ribadito con forza la sua totale fede europeista, proclamando, senza timore di andare controcorrente, il suo "amore" per un ideale che appare da tempo in declino.
La spiacevole lacuna di quell'intervento, è semmai un'altra. Proprio mentre stava parlando del dovere di riprendere il largo nella costruzione comunitaria, di tornare a «issare le vele», perché «bisogna amare l'Europa» malgrado gli alti e bassi del suo percorso storico, Juncker ha fatto un fugacissimo accenno a un evento molto significativo che l'Unione intera vivrà nel 2018: l'Anno del patrimonio culturale, indetto in tandem da Parlamento e Consiglio cinque mesi fa. Si è trattato di una mera citazione en passant senza il minimo approfondimento e senza nemmeno citare più il termine "cultura". Parola necessaria invece, anzi indispensabile, se davvero il numero uno dell'Esecutivo di Bruxelles intendeva riaccendere i sentimenti europeisti del suo uditorio.
Intendiamoci, non è che dal 1° gennaio prossimo vivremo una specie di grande giubileo della cultura continentale, con i "28-quasi-27" impegnati in una gara spasmodica a chi valorizza meglio la propria storia e le proprie tradizioni in nome della diversità e del dialogo. Anche perché i fondi a disposizione per sostenere iniziative o eventi ammontano in tutto a 8 milioni di euro. Che non sono pochissimi, sono anzi stati raddoppiati rispetto al progetto originario, ma fanno anche presto a esaurirsi. Resta il fatto che Juncker ha glissato proprio sulla "vela" più importanti per riprendere la navigazione. Senza la consapevolezza di una comune appartenenza, di una cifra culturale che unisce tutti i nostri popoli, non si capisce con quali stimoli si possa rianimare il sogno dei Padri fondatori.
Una buona chance per recuperare terreno ci sarà il 7 e 8 dicembre a Milano, quando nel capoluogo lombardo si terrà il Forum europeo della cultura, l'appuntamento biennale promosso dalla Commissione Ue, che quest'anno lascia la sede tradizionale di Bruxelles per essere ospitato in uno degli Stati membri. Non so se la scelta di aprire la manifestazione nel giorno del patrono della città sia stata casuale. Con ogni probabilità no. Ma allora quale occasione migliore per rilanciare l'immagine – e l'immaginario – della «patria comune», a partire dai suoi tratti fondamentali?
Esattamente il 7 dicembre di un anno fa il cardinale Angelo Scola citava nel suo discorso alla città la frase ammonitrice di Jeaan Monnet poco prima di morire: «Se dovessi rifare tutto quanto, comincerei dalla cultura». Quel suo ultimo intervento per la solennità ambrosiana, l'arcivescovo l'aveva dedicato proprio all'Europa, da lui definita «non un'opzione ma una necessità». Sì, certo, qualcuno dirà che, persa la battaglia per il riferimento alle radici cristiane nella "carta costituzionale" dell'Unione, è inutile farsi illusioni. Ma non è così. Quanto più e meglio si scaverà nella pluralità di forme, di lingue e di tradizioni che i popoli del Vecchio Continente hanno prodotto dai tempi del Patrono di Milano, tanto più emergerà la comune appartenenza a un patrimonio unico e universale. Ed è questa l'unica vera garanzia di pace e di solidarietà, oltre che di progresso nella giustizia, tra i cittadini europei.
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