sabato 3 febbraio 2018
«Davvero difficile fare le riforme in Italia», ha commentato a caldo Dario Franceschini, sospeso (immagino) tra incredulità e rassegnazione. Il motivo è l'ennesima e ondivaga sentenza della giustizia amministrativa su una delle migliori riforme realizzata nella legislatura al tramonto, quella dei Musei italiani, che ha creato Poli dotati di autonomia manageriale e consentito la selezione dei loro direttori attraverso concorsi internazionali.
Una riforma che ha tolto molta polvere accumulata nei decenni sul sistema museale italiano. E che è stata premiata subito dai numeri: dal 2013 ad oggi nei musei statali i visitatori sono aumentati del 18,5% (+7 milioni), arrivando al record di 45,5 milioni di ingressi nel 2016. Trend rafforzato ulteriormente nei primi nove mesi del 2017, con una crescita del 9,4% dei visitatori e del 13,5% degli introiti ed esempi spettacolari di rilancio come (solo per citarne alcuni) quelli della Reggia di Caserta, della Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma, del Museo nazionale di Reggio Calabria, delle Gallerie dell'Accademia di Venezia e del Museo di Capodimonte a Napoli.
Eppure, una sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato (pubblicata ieri) mette in dubbio uno dei pilastri della riforma – la possibilità che alla selezione per la direzione dei musei possano partecipare cittadini europei, che non siano italiani – rimandando la decisione definitiva a una adunanza plenaria del Consiglio. «Dopo 16 decisioni del Tar e 6 del Consiglio di Stato, quest'ultimo cambia linea e rimette la decisione sui direttori stranieri dei musei all'adunanza plenaria. Cosa penseranno nel mondo?» si chiede amaramente il ministro. Ben sapendo che la "funzione bloccante" della magistratura amministrativa è probabilmente diventata in Italia – in tutti i settori – non solo uno dei principali ostacoli alle riforme e alla loro capacità di produrre risultati in tempi accettabili, ma soprattutto uno strumento a servizio della "degenerazione culturale" degli attori economici e sociali.
È il trionfo del bizantinismo sul pragmatismo, della forma sulla sostanza, del pretesto sul merito: basta spesso un piccolo vizio di forma, un refuso, un'interpretazione lessicale errata per mandare in frantumi una grande riforma, una importante gara d'appalto, un provvedimento innovativo.
Abolire Tar e Consiglio di Stato, come in molti hanno ipotizzato, vorrebbe dire buttare il bambino insieme all'acqua sporca: priverebbe il cittadino della possibilità di tutelare i suoi diritti in caso di abusi del settore pubblico. Ma rivedere completamente funzionamento e regole d'ingaggio della giustizia amministrativa, per riportarla alla funzione originaria, è una delle riforme più urgenti e rilevanti che il nuovo Governo dovrà provare a realizzare. Magari impedendo alla stessa giustizia amministrativa di cassarla.
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