giovedì 19 ottobre 2017
«Ogni uomo moderno è un miserabile giornale. Noi non siamo altro che questo terribile calpestio di lettere»: questa feroce sentenza di Péguy è fatta propria dal poeta e critico Pierre Emmanuel, il quale se ne serve per segnalare come nel nostro mondo dell'istantaneità rischiano di scomparire quelle cose durevoli che costituiscono un cemento tra le persone, vale a dire le credenze, le comunità, i riti, le liturgie collettive. È in primo luogo l'eliminazione quasi totale del silenzio che sgomenta Emmanuel: come far fronte alla separazione tra un'esteriorità sempre più esigente e un'interiorità sempre più spenta e atrofizzata? Per il poeta oggi «la parola potrebbe essere una delle forme della carità, mentre il mondo attuale ora è difficilmente capace di parole giuste, perché le relazioni umane sono sempre più avare e povere». Egli scrive queste riflessioni, si badi bene, nel 1967, quando ancora si era assai lontani dalla rivoluzione digitale: dunque esse sono come non mai premonitrici. Le si possono leggere in un volume prezioso per chiunque, non solo per letterati, che in Italia è stato pubblicato dall'Istituto di propaganda libraria (Ipl) col titolo Alla ricerca dell'assoluto (ma il titolo originario era Le monde est interieur), che bene esprime il senso della sua ricerca che ha lo scopo di disseppellire la parola «nell'ambito della più grande carestia spirituale» che l'uomo abbia vissuto.
Personaggio scomodo nella cultura francese, Pierre Emmanuel (1916-1984), mediante la sua poesia e la sua riflessione critica ha denunciato le mode intellettuali, impegnandosi al tempo stesso direttamente nella Resistenza e in tante battaglie per la libertà dello spirito e della cultura, lottando contro le varie forme di totalitarismo e di consumismo materialistico. Per lui la funzione della poesia non è l'introspezione solipsistica, ma l'apertura verso orizzonti illimitati, e in questo senso precisa che «il mondo spirituale della poesia è il mondo della pura eterodossia, o meglio della pura eresia; ogni vero poeta è un eretico». Per questo, pur essendo evidente nelle sue liriche l'ispirazione cristiana, non gli piaceva essere definito «poeta cristiano». Non accettava nessuna classificazione, al tempo stesso però se la prendeva coi colleghi che tendevano a fare della poesia «una neoreligione di un mondo definitivamente ateo, una sorta di liturgia del nostro specifico narcisismo». Per lui la parola è fondamento e abisso, non un gioco arbitrario, è «l'arazzo in cui si legge la mia intera solidarietà con gli altri, tessuto vivente, anche se costantemente bucato». E ce l'aveva anche con i poeti che tendevano ad appropriarsi del Prologo del Vangelo di Giovanni con eccessiva disinvoltura, riducendo quell'esordio a puro afflato poetico e censurandone la sostanza: Gesù Cristo morto e risuscitato.
Per lui nel dopoguerra ci si trovava di fronte a un'impasse dell'arte: «Nulla mi è più estraneo quanto la pseudosantità dell'artista in quanto artista», celebrata da alcuni critici spinti dall'entusiasmo per i cosiddetti grandi sofferenti nati dal Romanticismo (Hölderlin, Nerval, Mallarmé), vittime dell'ossessione e incapaci di abbandono. Mentre salvava Baudelaire, la cui preghiera vale per tutti, credenti e non credenti: «Datemi la forza di fare immediatamente il mio dovere tutti i giorni e di diventare così un eroe e un santo». Per Emmanuel l'autore dei Fiori del male rappresenta l'inquietudine della coscienza religiosa, la presa d'atto del potere e del fascino del male, la lotta contro la noia e la nevrosi moderna, mentre Péguy, l'altro suo grande punto di riferimento, trae tutta la sua arte dall'essersi fatto servitore e non padrone della parola. Emmanuel scrive queste sue considerazioni quando era ancora forte la separazione degli intellettuali in blocchi ideologici, ma egli profetizzava un'era di libertà che potesse abbattere i muri, intravedendo al contempo il pericolo che nel futuro «tutto sarebbe stato libero, eccetto l'essenziale». La parola proibita all'Est e sbeffeggiata all'Ovest avrebbe rischiato l'ultimo denudamento. Ma non si chiudeva affatto alla speranza e poteva scrivere: «Eppure, all'Est e all'Ovest, sono numerosi gli eremiti della realtà essenziale».
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