mercoledì 30 novembre 2011
Non ho niente contro di te, morte, non riesco neppure a odiarti. Come vivresti e cosa faresti se tu avessi una madre o un figlio ed essi morissero? Non ho paura di te, anzi, ti compiango profondamente perché non avesti mai una madre né un figlio.

Già una volta abbiamo portato in questo nostro spazio quotidiano un poeta romeno della Repubblica Moldova, Grigore Vieru (1935-2009). Lo riascoltiamo a chiusura di un mese che la tradizione assegna alla memoria dei defunti e la sua è una sfida alla morte, simbolo supremo di infelicità. Essa, infatti, non conosce la bellezza e le meraviglie dell'amore: non ha madre né figli e, quindi, senza imbarazzo, elimina madri e figli, ma ignora cosa significhi poter amare una madre o un figlio. In un'altra poesia, però, Vieru mostra un aspetto positivo dell'esperienza umana del morire.
Ecco le sue parole: «Non esiste la morte! Solamente cadono le foglie per vederci meglio quando siamo ancora lontani» da quella meta estrema che ci attende. È un po' quello che, con immagini desunte dal mondo greco, faceva balenare san Paolo: «Quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, simile a una tenda, riceveremo da Dio un'abitazione, una dimora non costruita da mani d'uomo, eterna, nei cieli» (2 Corinzi 5,1). Morire è uno spogliarsi di veli, di pesi, di fogliami che celano l'altra faccia della vita che sta al di là di quella che noi vediamo con questi segni transitori e caduchi. C'è, dunque, un'epifania che ci attende quando saremo su quella soglia estrema. Cantava un'altra poetessa, Margherita Guidacci: «Quanto di te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, / ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio conosce» e che solo in quell'istante ci sarà svelato.
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