martedì 18 marzo 2014
Vedo Clarence Seedorf, lo sento respingere un sereno invito all'umiltà, mi trovo per un attimo sopraffatto da sensi di colpa. Nel lontano passato ho osato polemizzare con il Paron Nereo Rocco che, stizzito, arrivò a chiedere la mia testa a Enzo Biagi, il mio direttore, beccandosi un rimpallo feroce e più tardi una stretta di mano contrita; con il Mago Helenio Herrera, il quale incassava disinvolto limitandosi a chiedere «chi sei?» prima di darmi attenzione e confidenza; con Edmondo Fabbri sangue romagnolo che appena mi vedeva mormorava «ecco la peste dei tacchini»; e non vi dico le ore inquiete trascorse con Gipo Viani, lo Sceriffo di Nervesa della Battaglia: eravamo divisi su tutto, anche sui fatti della vita, e lui ne approfittava per rispondere alle mie accuse spiegandomi come aveva inventato il “catenaccio” e il calcio moderno, arricchendo la mia cultura pallonara. Ho vissuto la stagione dei grandi, intimidito solo da Vittorio Pozzo e Fulvio Bernardini, maestri indiscutibili, e oggi fatico a sopportare la stagione dei minimi. Il calcio era in mano ai maestri, rarissimi gli apprendisti stregoni puntualmente affondati dalla critica. Pensate, se n'è andato da poco quasi ignorato Corrado Viciani, l'inventore del Gioco Corto (possesso palla, pressing alto, fraseggi insistiti) quarant'anni dopo definito “Tiki Taka”: era talmente modesto, Corrado, che faceva fatica a farsi ascoltare, a far circolare le sue idee tatticamente rivoluzionarie, e diventammo amici solo perché provai a fargli da megafono: portò la Ternana in Serie A nel 1972 e si permise di dare una lezione di calcio anche al Milan di Gianni Rivera. Oggi, se ti azzardi a muovere corrette critiche ai giovanotti improvvidamente trascorsi dal campo o dal settore giovanile alle panchine della Juventus, dell'Inter e del Milan, è già un miracolo se ti rispondono e non ti mandano a quel paese. Ho visto Ciro Ferrara impossessarsi della panchina di Ranieri a fine campionato e aggiudicarsi con sconsiderata disinvoltura l'accesso alla Champions; ho tentato di far capire a Stramaccioni che la vittoria della sua Inter in casa Juve sarebbe stata esiziale se non gestita con bravura, l'ho visto sorridere con sufficienza e stupore («gestire la vittoria? ah ah») eppoi sparire con la Beneamata; ho registrato come esibizioni di curiosa incompetenza gli inviti a portare in Italia il velleitario esotico Villas Boas; e infine ecco Clarence Seedorf, un signor giocatore che ho elogiato anche quando gli squisiti curvaioli di San Siro lo invitavano a togliere il disturbo e mi è onestamente spiaciuto che gli affidassero il Milan: semplicemente perché non poteva - ribadisco, non poteva - avere gli strumenti professionali per salvarlo da una crisi che solo Allegri, l'aziendalista punito da chi gli aveva svuotato la squadra di campioni come Ibrahimovic e Thiago Silva, avrebbe potuto almeno mitigare. Berlusconi è stato ingeneroso a caricarlo di tanta responsabilità, Seedorf è stato imprudente ad accettare il rischio. Ma per fortuna tutti sanno qual è il vero problema del Milan: Balotelli, il toro espiatorio.
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