mercoledì 13 novembre 2019
Nel 1960 Jean Cau seguì la stagione del torero Jaime Ostos e tenne un minuzioso diario intitolato Toro, letterariamente pregevole, che Iduna Editore oggi ripropone (pp.288, euro 20). Jean Cau (1925-1993), giornalista e scrittore, è stato segretario di Jean-Paul Sartre e sceneggiatore di film importanti come Borsalino e Il ribelle di Algeri. Si sa che la tauromachia è argomento divisivo: nel 2010 il Parlamento catalano aveva legiferato contro la corrida, ma nel 2016 la Corte costituzionale spagnola ha annullato il divieto perché dal 2013 una legge qualifica la corrida come parte del "patrimonio culturale immateriale" della nazione, e quindi la fattispecie è di competenza statale. Come sempre, Barcellona ama disobbedire alle leggi di Madrid, per cui la questione non è chiusa. Nelle prime pagine, Jean Cau elenca le obiezioni contrarie alla corrida e risponde con intelligenza. L'obiezione più stupida è che la corrida sarebbe "fascista": «Era barbarie, rito, cerimonia. Era morte e passato e dunque di destra, giacché da parte sinistra [da cui Cau proveniva] tutto era progresso e vita». «Domande [di Cau]: E se tutta la bellezza del mondo fosse "fascista"? In altri termini: e se ogni artista non avesse altro scopo che interrogare sul tema della morte la sua angosciosa e totale solitudine? Se il Cremlino che il signor Kruscev ci mostra con tanto orgoglio a Mosca, se quella cattedrale di Reims che noi gli mostriamo con tanto orgoglio in Francia fossero altrettante prove della paura della morte che attanagliò i loro costruttori? E se ogni forma di bellezza fosse prima di tutto e soprattutto tragica? E se ogni opera d'arte dipinta o scolpita non fosse altro che il ritratto o la statua mille volte ricominciata della morte? E se ogni musica e ogni poesia ci ripetessero costantemente, coi loro mortali accenti, che vivere è follia? E se tutta la bellezza di questo mondo non fosse altro che il presentimento della sua imminente ed eterna morte? E se l'opera d'arte fosse il talismano forgiato per far svanire la nostra unica certezza, quella di morire? E se ogni musica fosse un canto funebre? E se ogni poema fosse una preghiera? E se l'arte fosse tutta sacra?». Andiamoci piano, dunque, con le accuse di "fascismo". Il diario di Jean Cau non è un trattato didascalico sulla tauromachia. Contiene il "dietro le quinte" dei grandi toreri coetanei a Jaime Ostos, meno celebre di Ordoñez e Dominguín ma non meno bravo. I critici taurini intervistati da Cau demoliscono l'Hemingway di Morte nel pomeriggio e di Fiesta che, a loro autorevole avviso, non capiva di tori e toreri. Fra le cose che ho imparato da Toro c'è il significato di "toro afeitado" (toro rasato). Consiste nel tagliare due o tre centimetri alla punta delle corna: per non infilzare il torero, si direbbe. Non è esattamente così, perché per occultare il taglio, gli addetti rifanno le punte con la lima. La verità è che il toro "sente" con le corna, attraverso le quali, come fossero antenne, percepisce il senso dello spazio, le distanze. Dunque, un toro "afeitado" perde l'orientamento, a vantaggio del torero. La pratica è proibita, ma i toreri, anche i grandissimi, almeno ogni tanto vi ricorrono.
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