venerdì 12 marzo 2004
Tutti siamo d'una stoffa nella quale la prima piega non scompare mai più. «Prenderai una brutta piega»: era questo il monito minaccioso che un tempo si lanciava contro un ragazzo che indulgeva a cattive abitudini. Si tratta di un'immagine domestica, desunta dall'esperienza della donna di casa che deve piegare e riporre bene un tessuto per impedire che si stropicci. Ora, il nostro Massimo D'Azeglio (1798-1866), genero di Alessandro Manzoni, nel libro autobiografico I miei ricordi ricorre a questa stessa immagine ma con una variante: egli, infatti, parla della "prima piega", ossia dell'impronta che lascia in noi la prima educazione che riceviamo. E ha ragioni da vendere. Basti solo pensare a come crescono certi ragazzi che l'hanno avuta sempre vinta dai genitori quand'erano piccoli, forse per eccesso (sbagliato) d'amore o per quieto vivere egoistico. E in proposito, pensiamo alle tracce indelebili che hanno lasciato nella nostra anima persone sapienti, eventi importanti, incontri significativi. Detto questo, non dobbiamo però indulgere a una sorta di fatalismo, come sembra suggerire D'Azeglio. Esistono - anche contro la "prima piega" - antidoti. C'è innanzitutto l'esercizio fermo e severo della volontà che può rendere lentamente e pazientemente diritto anche ciò che è ritorto, come fa con un metallo il fabbro. Chiediamo troppo poco alla nostra volontà, non amiamo sudare e stringere i denti. Ormai il celebre motto alfieriano «Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli»
non lo si impara neppure a scuola. C'è, poi, anche la grazia divina che può sostenere e guidare la nostra scelta e che può rendere candido anche ciò che è scarlatto, come dice Isaia (1, 18), permettendoci di «rinascere dall'alto/ di nuovo» (Giovanni
3,3).
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