giovedì 20 gennaio 2011
La porta della felicità si apre verso l'esterno cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi.

Una porta che si spalanca verso l'esterno è piuttosto rara: con le sue due ante protese in avanti sembra più invitare a entrare che a tener protetti gli abitanti della casa dalle incursioni esterne. La porta della felicità è così concepita, ci ricorda il filosofo danese ottocentesco Soeren Kierkegaard, proponendo questo simbolo molto diverso dall'attuale porta blindata, che è assurta un po' a vessillo del nostro che è un tempo di paure e di sospetti. Dalle finestre della mia residenza romana vedo le due braccia del colonnato del Bernini, esse si aprono per accogliere i pellegrini che sono ammessi alla Basilica di S. Pietro. È il segno visivo di un'accoglienza, di un incontro, di una spontanea consonanza di sentimenti.
Ora, però, si levano i filtri dei controlli di polizia: certo, sono necessari e lo sappiamo bene, ma sono anche il segnale di una diversa atmosfera fatta di timori di attentati, di ostilità, di inimicizie. Ed è così che anche la serenità gioiosa scompare. Tutto questo non vale solo per la società, vale anche per noi stessi. I condomìni, con le loro porte blindate, incarnano una sconfitta dell'umanità che non si stringe più la mano sospettando che in quella dell'altro si celi un'arma. Sono piccoli mondi fatti di solitudini che convivono solo spazialmente. Ecco, allora, la necessità di una paziente opera di ricostruzione dell'incontro, del dialogo, dell'uscire in cortile e sulla piazza per ritrovare la capacità di stare insieme, di parlare e di ascoltare, di guardarsi in viso e negli occhi e forse di amarsi.
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